Luigiemanuele Amabile in conversation with Christoph Grafe.
LA: Which challenges in our built and natural environments should today’s architectural design studios engage with?
CG: Reuse and adaptation of buildings – as cultural, aesthetic, and technical questions; the needs and preferences of a culturally diverse society; regional appropriateness; the value of labour in building, and the value of the workers.
LA: How should a design studio to be structured, and what methods or tools best support its aims?
CG: The studio should strike a balance between giving students enough freedom in their work and offering them a framework that helps them achieve both their personal goals and those of the studio as a whole. The pedagogical structure should be simple and transparent, yet adaptable as the project unfolds.
LA: In what ways does the quality of the physical studio space shape the learning experience, and why does this matter?
CG: The physical space is of great importance. It should be airy, not too warm, and well-ventilated – ideally with operable windows and generous natural light. Crucially, it must not feel too perfect; it should have the character of a laboratory or even an industrial workshop.
LA: Is architecture – as “knowledge of form” – still a self-contained discipline?
CG: Yes. Architecture is not only about the knowledge of form, but formal-aesthetic questions remain essential and at its core. Most buildings fall out of favour not because of structural or functional failure, but because they cease to be liked. In spaces that do not look or feel right, people feel miserable – and may act accordingly.
LA: What legacies do the 20th-century schools of architectural thought leave us?
CG: That’s a very large question, given the multitude of schools of thought. Generally, the most valuable traditions are those that treat students seriously and grant them freedom. A school should transcend mere aesthetic preference; it must articulate a clear, if implicit, cultural stance.
LA: As architectural education increasingly intersects with disciplines like the hard sciences, anthropology, or art, what unique contribution can design pedagogy make to these hybrid practices?
CG: Architectural design is a vital mode of knowledge generation with its own epistemological traditions. The design process moves forward despite incomplete information, embracing uncertainty. This approach can enrich disciplines that traditionally depend on linear, fully-known processes of inquiry.
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Architettura nell’incertezza
Luigiemanuele Amabile in conversazione con Christoph Grafe.
LA: Quali sono i temi più urgenti che un laboratorio di progettazione architettonica dovrebbe affrontare oggi?
CG: Il riuso e la trasformazione degli edifici intercettano diverse questioni: culturali, estetiche e tecniche; i bisogni e le aspirazioni di una società culturalmente diversificata; la ricerca dell’appropriatezza all’interno di un contesto regionale; il valore del lavoro nell’industria delle costruzioni e il riconoscimento del lavoro degli architetti.
LA: Come dovrebbe essere strutturato un laboratorio di progettazione e con quali metodi e strumenti?
CG: Il laboratorio deve trovare un equilibrio tra il concedere agli studenti una libertà di movimento nel loro lavoro e offrigli di un quadro di riferimento che li aiuti a raggiungere sia i loro obiettivi come individui e quelli dell’intero design studio inteso come collettività. La struttura pedagogica deve essere organizzata in maniera chiara e trasparente, ma al contempo deve essere in grado di adattarsi ai diversi momenti del progetto man mano nella sua evoluzione.
LA: Quanto conta la qualità dello spazio fisico del laboratorio nell’esperienza di apprendimento?
CG: Lo spazio fisico è di grande importanza. Dovrebbe essere arioso, non troppo caldo e ben ventilato – idealmente con finestre apribili e abbondante luce naturale. Fondamentale, inoltre, che non risulti troppo “perfetto”: dovrebbe avere il carattere di un laboratorio o persino di una officina industriale.
LA: L’architettura – intesa come scienza della forma – è ancora una disciplina autonoma?
CG: Sì. Ma l’architettura non riguarda solo la conoscenza delle questioni formali ed estetiche, sebbene esse restino essenziali e rappresentino il suo nucleo. La maggior parte degli edifici non diventa obsoleta a causa di problemi strutturali o di funzionalità, ma piuttosto perché non incontra più i gusti delle persone. Negli spazi che non appaiono adeguati o che non fanno sentire “a posto”, le persone provano disagio. E possono comportarsi di conseguenza.
LA: Cosa ereditiamo dai maestri e dalle scuole che ci hanno preceduto?
CG: È una domanda molto ampia, dato l’ampio panorama di scuole di pensiero da cui discendiamo. In generale, le tradizioni più preziose e che hanno lasciato tracce più fertili sono quelle che hanno messo al centro la libertà degli studenti e che hanno considerato il loro ruolo con serietà. Una scuola dovrebbe trascendere l’utilizzo del gusto e della mera preferenza estetica come criterio di giudizio e articolare una posizione culturale chiara, anche se implicita.
LA: L’educazione al progetto di architettura si intreccia sempre più con discipline come le scienze dure, l’antropologia o l’arte. Quale contributo può offrire la pedagogia del progetto a queste pratiche ibride?
CG: Il progetto architettonico è un processo che genera conoscenza ed è caratterizzato da metodologie epistemologiche distintive. Il processo di progetto, a differenza di altri casi, prosegue nonostante la mancanza di informazioni e dati completi ed esaustivi, accogliendo l’incertezza come un fattore intrinseco. Tale approccio può contribuire all’arricchimento di discipline che tradizionalmente dipendono da processi di indagine lineari e strutturati.
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Luigiemanuele Amabile – Architect and PhD, research fellow of the project DT2 (UdR Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Christoph Grafe – Architect, professor of Architectural History and Theory, University of Wuppertal