Building narratives for communities

The world of architectural education is becoming more complex with each passing year. At the turn of the millennium, design culture found itself having to face challenges that once seemed far from the world of “bella forma”, of an architecture that, at least in Europe, until not long ago spoke of the autonomy of the architectural project. A pious illusion, in which Italian academic architecture indulged for some decades, sinking with it. More than ever today, we know that that kind of Eden in which architects hoped, dreamed, to live undisturbed and accountable only to a few, to the Maestri, no longer exists. Perhaps it never did.

Architecture has always had to contend with place, with craftsmen, with politics, with geography, with topography, with the cults and myths of the communities in which it was embedded. Despite the purposes of its construction often being, at least in the case of what we now consider monuments and collective memories worth preserving, political control – as with military works – or existential, in the case of religious works, architecture has always had to reckon with the people among whom it would be built and later live. And therefore with the communities to which it would be addressed.

An Italian school of architecture that truly wishes to be international must strengthen its specificity in listening to demands that arise from close contact with its own area of study, with its stakeholders, with those communities whose stories, in order to become narratives, must be rooted. If the design studios of our schools want to continue being one of the core formative hubs for tomorrow’s architects, they must know how to tune their ear to their reference communities, thereby becoming necessary – otherwise they risk losing all reason to exist in the unrestrained late-capitalist competition of current international schools. A trend, that of pragmatic efficiency, is sadly occupying the space and time of those who could more fruitfully invest them in the construction of narrative laboratories, as one might now call them, paraphrasing Byung-Chul Han. «Stories connect people to one another, fostering the ability to empathize. From them, a community emerges». Hence, the choice of themes shared with the people and associations with whom one works, attention to the ways of narrating the experiences of those who live in the territory – not just of specialists, who are increasingly less capable of making “listening space” in their frenetic work – seem today to represent the real directions for transforming design studios at all scales of design; studios that only in this way will remain foundational and irreplaceable.

At the same time, our academic training paths today seem to be moving in an intrinsically contradictory direction: on one hand, increasingly tight course design strategies, with strict and increasingly pervasive monitoring procedures, follow one another as if it were truly possible to “industrialize” the educational process of our students without adequately taking into account their aspirations and fears, the dreams and nightmares that our time daily proposes to those in training in an era that seems afraid of the near future. On the other hand, increasingly open intersections between different degree courses are beginning to emerge on the legislative level, with the possibility of building learning paths with a freedom that might even appear excessive, giving students opportunities to increasingly personalize their educational journey – with consequences for the narrative of a profession with such a layered history as that of the architect that are difficult to predict.

In any case, in this still contradictory landscape, the formative growth potential of architectural design studios appears enormous if built on a constant relationship based on structured listening to the reference territory and its social and productive realities.

It is clear that much will depend on how capable design studio instructors are in making them places of experimentation, encounter, and contamination of methods and languages according to the perspective mentioned earlier. Places of cultural métissage, where it would be desirable not to attempt to propose abstractly professionalizing dynamics – something now to be considered practically impossible, much more so than it may have seemed in the late twentieth century. In some way, the opacity of education—that sort of undefined possibility of doing, redoing, shifting from one apparently settled practice to another in order to cross small thresholds of encounter with the lesser known, the more playful, the more socially referenced process of architectural design shared with communities—appears, from the writer’s point of view, the most interesting perspective for not being swept up in the frenzy of rushing into the arms of the goddess who appears on the horizon and seems to run toward us in her apparently transparent, luminous omniscience: artificial intelligence.

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Costruire narrazioni per le comunità

Il mondo della formazione dell’architetto va rendendosi di anno in anno più complesso. La cultura del progetto in questo passaggio di millennio si è trovata a dover affrontare sfide che sembravano lontane dal mondo della “bella forma”, di un’architettura che, almeno in Europa, fino a non molto prima parlava di autonomia del progetto di architettura. Una pia illusione, in cui l’architettura accademica italiana per qualche decennio si è cullata, affondando. Mai come oggi, sappiamo che quella specie di Eden in cui gli architetti speravano, sognavano, di poter vivere indisturbati e senza dover dar conto se non a pochi, ai Maestri, non esiste più. Forse non è mai esistito. 

L’architettura ha sempre dovuto fare i conti con il luogo, con le maestranze, con la politica, con la geografia, con l’orografia, con i culti e i miti delle comunità in cui si inseriva. Malgrado le finalità della sua costruzione spesso, almeno di quelli che oggi consideriamo monumenti e memorie collettive da tutelare, fossero il controllo politico, come per le opere militari, o esistenziale, nel caso delle opere religiose, l’architettura ha sempre dovuto fare i conti con le persone tra le quali avrebbe dovuto costruirsi e poi vivere. E quindi con le comunità alle quali si sarebbe dovuta rivolgere. 

Una scuola di architettura italiana, che voglia essere davvero internazionale, deve rafforzare la propria specificità di ascolto di istanze che nascano dal contatto strettissimo col proprio territorio di studio, con i suoi portatori di interessi, con quelle comunità che hanno storie che, per diventare narrazioni, devono essere radicate. Se i laboratori del progetto delle nostre scuole vorranno continuare a essere uno dei fuochi formativi degli architetti di domani dovranno saper tendere l’orecchio alle proprie comunità di riferimento diventando in tal modo necessari, pena perdere ogni ragione di esserci nella smodata competizione tardo capitalista delle attuali scuole internazionali. Un trend, quello dell’efficientismo pragmatico, che sta tristemente prendendo spazi e tempi di chi potrebbe più fruttuosamente investirli in queste costruzioni di laboratori narrativi, come a questo punto verrebbe da chiamarli parafrasando Byung-Chul Han. «Le storie congiungono le persone le une alle altre, favorendo la capacità di empatizzare. Da esse emerge una comunità». Per cui la scelta dei temi condivisi con le persone e le associazioni con cui si opera, l’attenzione alle modalità di narrazione delle esperienze chi nel territorio vive, e non solo agli specialisti, peraltro sempre meno capaci di fare “spazio di ascolto” nel proprio frenetico operare, sembrano oggi rappresentare le reali direttrici di trasformazione dei laboratori progettuali a tutte le scale del progetto; laboratori che solo così resteranno fondanti e non sostituibili.

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D’altra parte, proprio in questi giorni i nostri percorsi formativi accademici sembrano andare in una direzione intrinsecamente contrastante: da una parte, strategie di progettazione di corsi di studio sempre più stringenti, con procedure di monitoraggio serrate e sempre più capillari, si susseguono come se fosse davvero possibile “industrializzare” il processo formativo dei nostri studenti, senza tenerne in debita considerazione le aspirazioni e le paure, i sogni e gli incubi che il nostro tempo quotidianamente propone a chi è in formazione in tempi che sembrano avere timore del prossimo futuro. Dall’altra, si iniziano a prospettare sul piano legislativo intersezioni sempre più aperte tra corsi di laurea differenti, con possibilità di costruire percorsi formativi con una libertà che potrebbe apparire anche esasperata, dando agli studenti opportunità di personalizzare sempre di più il proprio percorso formativo con conseguenze, sulla narrazione di un mestiere con una storia così stratificata come quello dell’architetto, difficili da prevedersi.

In ogni caso in questo pur contraddittorio panorama, le potenzialità di crescita formativa da parte dei laboratori di progettazione architettonica appaiono enormi se costruiti nel rapporto costante basato su uno strutturato ascolto del territorio di riferimento e sulle sue realtà sociali e produttive.

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È chiaro che molto dipenderà da quanto i docenti dei laboratori progettuali sapranno renderli luoghi di sperimentazione, incontro e contaminazione di modalità e linguaggi secondo la prospettiva prima accennata. Luoghi di meticciato culturale, dove sarebbe auspicabile non si tentasse di proporre dinamiche astrattamente professionalizzanti, cosa oggi da ritenersi praticamente impossibile molto più di quanto potesse apparire nel secondo Novecento. In qualche modo l’opacità della formazione, quella sorta di indeterminata possibilità di fare, rifare, spostarsi da una prassi apparentemente tranquilla a un’altra per superare piccole soglie di incontro con il meno noto, il più giocoso, il più socio-referenziato processo del progetto di architettura condiviso con le comunità appare, dal punto di vista di chi scrive, la prospettiva più interessante per non farsi prendere dalla frenesia di lanciarsi tra le braccia della dea che appare all’orizzonte e che sembra correrci incontro nella sua apparente trasparente, luminosa onniscienza: l’intelligenza artificiale. 

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Nicola Flora – Full Professor, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Dettaglio di uno degli allestimenti temporanei organizzati dagli studenti del DiARC partecipanti al workshop “UpLiving Riccia” svoltosi a Riccia (CB) nella primavera 2014 (foto Nicola Flora)
Dettaglio di uno degli allestimenti temporanei organizzati dagli studenti del DiARC partecipanti al workshop “UpLiving Riccia” svoltosi a Riccia (CB) nella primavera 2014 (foto Nicola Flora)