For the new Master’s degree program in Architecture for Communities, Territories and the Environment at DIARC, we chose to begin by outlining the fields and contexts in which an architect can operate today, beyond traditional areas of action, focusing carefully on the present, on the ongoing social and cultural changes, on humanity and the environment; after countless hours of reflection, exchange and discussion, it became almost imperative to concentrate on conditions and contexts of emergency.
For many years, the phenomena of informal cities and global megacities – where nearly a billion people now live in extreme conditions – have been studied, with attention mostly given to urban phenomena, while often overlooking how these contexts require rapid, effective and efficient design actions. Beyond these urban phenomena, by now sadly historicized, there are other types of emergency contexts, from conflicts to catastrophic environmental events, which on a daily basis cause profound disruptions, leaving territories, cities and natural areas in need of reconstruction in order to return a future to the affected populations.
Design is the tool for action, for redrawing and rebuilding places in their material and technical dimensions, for acting in their political and institutional dimensions. Design has been understood as an architecture of engagement, within a relational and dialogical framework, capable of triggering concrete and immediate action; emergency contexts return territories as traumatized as their populations, in exceptional and unforeseen situations.
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The dialogue with a wide range of interlocutors outside the canonical stakeholders of our academic programs strengthened the development of the course, providing the group of faculty members who worked on it with new stimuli and encouraging signals; today, it is by no means easy to imagine what is “professionalizing” for an architect, apart from a practice that I believe should not be part of the course of study except through a few particularly significant experiences. Certainly, our work was driven by the desire to reclaim an ethical and political role for our profession.
This shared sentiment and what was happening around us in those months (from the pandemic, to the outbreak of wars, to the rise in refugees amid the resurgence of long-standing conflicts, to the climate phenomena that now affect all seasons and all continents) increasingly highlighted the physical – and not only physical – spaces of action for the architect, a set of emergency areas requiring, even before such phenomena conclude, prompt and precise interventions in the field of international cooperation, within which design continues to play an important role.
Starting from this foundational choice, we constructed a different educational framework, working in depth on the disciplines, agreeing on both an individual and collective effort to redefine topics and practices to be proposed to students, while at the same time making use of the didactic tools we are familiar with, starting from the design studio.
The organization of the course’s teaching responds to the questions raised by this research effort. A system was therefore built based on the four semesters that make up the two-year program, each of which was given a specific theme: community, sustainability, inclusion, implementation and process. Teaching is structured through studios, which are confirmed as excellent educational devices for our disciplines and which require a renewed effort in terms of the relationship between the disciplines that compose them and the fine-tuning of the needs that courses organized around studios have – needs that can no longer be ignored.
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Il progetto di un nuovo corso di laurea
Per il nuovo corso di laurea magistrale in Architettura per Comunità, Territori e Ambiente del DIARC, abbiamo scelto di iniziare a delineare gli ambiti e i contesti entro i quali può operare un architetto oggi, oltre i tradizionali campi d’azione, soffermandoci con cura sul presente, sui mutamenti sociali e culturali in atto, sull’uomo e sull’ambiente; dopo innumerevoli ore di riflessione, scambio e discussione è apparso quasi inderogabile soffermarci su condizioni e contesti di emergenza.
Da molti anni si studiano i fenomeni delle città informali, delle megalopoli mondiali dove ormai quasi un miliardo di persone vive in condizioni inaudite, ponendo perlopiù l’attenzione ai fenomeni urbani, considerando poco quanto questi contesti richiedano azioni progettuali rapide, efficaci ed efficienti. Oltre questi fenomeni urbani ormai tristemente storicizzati, ci sono contesti emergenziali di altra natura dai conflitti agli eventi catastrofici di natura ambientale, che creano quotidianamente alterazioni profonde lasciando territori, città, aree naturali da ricostruire per restituire il futuro alle popolazioni colpite.
Il progetto è lo strumento per operare, per ridisegnare e ricostruire i luoghi nella sua dimensione materiale e tecnica, per agire nella sua dimensione politica e istituzionale. Il progetto è stato inteso come un’architettura di engagement, in una dimensione relazionale e dialogica, in grado di innescare l’azione concreta e immediata; i contesti emergenziali restituiscono territori traumatizzati quanto le popolazioni, in situazioni eccezionali e impreviste.
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Il confronto con una nutrita serie di interlocutori che esulano dai canonici stakeholders dei nostri corsi di studi, ha rafforzato la costruzione del corso, dando al gruppo di docenti che ci hanno lavorato nuovi stimoli e segnali incoraggianti; non è per nulla facile oggi immaginare per l’architetto cosa sia “professionalizzante”, a parte una pratica che ritengo non debba essere parte del percorso di studio se non attraverso alcune occasioni particolarmente significative, certamente il nostro lavoro è stato spinto dalla volontà di recuperare un ruolo etico e politico al nostro mestiere.
Questo sentire comune e quanto andava accadendo intorno a noi in quei mesi (dalla pandemia, allo scoppio delle guerre, all’aumento dei profughi con la recrudescenza di lunghi conflitti, ai fenomeni climatici che attraversano ormai tutte le stagioni e tutti i continenti) hanno sempre più evidenziato gli spazi fisici, e non, di azione dell’architetto, un insieme di ambiti emergenziali che richiedono prima ancora che i fenomeni si concludano, interventi tempestivi e puntuali nell’ambito della cooperazione internazionale, all’interno della quale si conferma uno spazio importante per il progetto.
A partire da questa scelta di fondo abbiamo costruito un meccanismo formativo diverso, lavorando nel merito delle discipline, accordandoci su uno sforzo individuale e comune per ridefinire temi e pratiche da proporre agli studenti, adoperando allo stesso tempo i dispositivi didattici a noi noti a partire dal laboratorio.
L’organizzazione della didattica del corso di studi risponde ai quesiti che questo lavoro di ricerca si pone e ci pone; si è così costruito un sistema basato sul tempo dei quattro semestri che compongono i due anni di corso, ciascuno dei quali è stato tematizzato: comunità, sostenibilità, inclusione, attuazione e processo. La didattica è strutturata attraverso i laboratori che si confermano dispositivi didattici eccellenti per le nostre discipline, rispetto ai quali bisognerebbe fare uno sforzo nuovo in termini di relazione tra le discipline che li compongono e di messa a punto delle esigenze che i corsi organizzati attraverso i laboratori hanno e che non possono essere più ignorate.
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Marella Santangelo – Full Professor, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.