Mi interessa sempre molto parlare di pedagogia, credo sia molto importante interrogarsi sul tema. Non solo, però, dal punto di vista teorico, ma soprattutto a partire da come io stesso ho affrontato i problemi pratici che mi si sono posti, in questo campo, nelle diverse università in cui ho insegnato e rispetto al ruolo che al momento ricoprivo. In questo senso, tra le più importanti, per me, rimane l’esperienza fatta al Politecnico di Torino, quando, nel 2002, sono stato chiamato da Carlo Olmo, allora Preside della prima Facoltà di Architettura, con il mandato, per così dire, di “inventare” un modello per le nuove lauree specialistiche. Cosa che mi ha permesso di esplorare l’argomento secondo prospettive molto diverse.
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Un’altra questione su cui ho spinto molto, poi, era legata proprio al calendario e agli spazi di lavoro. Da un lato, infatti, grazie alla collaborazione con Olmo, ho ottenuto che una parte di locali che si erano appena liberati vicino al Castello del Valentino fossero riservati esclusivamente per i laboratori, per cui gli studenti potevano lasciare tutto lì, modelli compresi. E dall’altro ho introdotto il calendario diviso in due fasi: la prima di 10 settimane caratterizzata dall’alternanza fra i corsi disciplinari e i laboratori, con i laboratori che occupavano due giorni pieni, e la seconda di 4 settimane secondo il modello a charrette, senza corsi monografici, per cui lo studente finiva il progetto, facendo solo quello. Questo anche perché volevo che l’ultimo giorno del calendario fosse l’esame finale. Per cui anche gli altri docenti erano d’accordo sul fatto di comprimere il loro insegnamento, perché in cambio sapevano che nella stessa sessione d’esame lo studente aveva finito il progetto e aveva tutte le vacanze per fare gli altri esami senza avere l’incombenza di pensare ad altro.
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[Quello “infrastrutturale”] È un tema fondamentale, invece. Che assieme alla composizione e alla struttura del corpo docente dovrebbe costituire la base fondamentale di definizione del numero programmato di ingressi. È su questo che si fonda la vera sostenibilità di una scuola e, quindi, di un modello didattico. Anche perché il quadro generale in cui si situa la nostra offerta formativa, ormai, non è più solo di scala nazionale, ma internazionale, e se non si inizia a ragionare sul tema, il nostro modello rischia molto in questo senso.
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Per quanto possa sembrare strano per il contesto italiano, al contrario di quanto invece accade in ambito internazionale, ritengo sarebbe necessario introdurre un corso preparatorio di base, il cui superamento rappresenti un vincolo per l’ammissione alla laurea vera e propria. Un anno di iniziazione, cioè, dedicato esclusivamente a esercizi progettuali, disegno, storia e critica, attraverso cui gli studenti possono acquisire gli strumenti per cominciare a studiare architettura. Oggi, infatti, arrivano a frequentare le nostre università studenti non solo con formazioni molto diverse in termini di istruzione secondaria, ma provenienti anche da contesti culturali o geografici molto differenti fra loro. E a tutti loro dobbiamo trasmettere quel principio fondamentale che riguarda l’aspetto multidimensionale dell’architetto, che non può essere esaurito in breve tempo.
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Quella sulle valutazioni individuali è sempre una questione molto delicata. E dipende, ovviamente, sia dal tipo di laboratorio sia dall’anno di corso. Anche nella magistrale, però, faccio sempre in modo che gli studenti possano avere almeno una parte del progetto sviluppata individualmente. Questo perché credo sia molto importante responsabilizzare gli studenti, e far capire loro che essere architetti è un ruolo, anche sociale e politico, legato a quello della disciplina. Come sappiamo, infatti, l’architettura insieme alla medicina è l’unica professione protetta in Europa, proprio per la responsabilità che comporta. Per questa ragione, penso che sia molto importante che gli studenti capiscano sin da subito quanto sia essenziale essere capaci, per così dire, di camminare da soli. Pur nella consapevolezza che, per molti di loro, questa esperienza individuale può essere uno shock. Ma anche in quella che è comunque fondamentale obbligarli a prendersi il rischio di fare un progetto, accettandone i risultati e gli inevitabili fallimenti.
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Il discorso […] è un po’ quello di elaborare delle prime idee totalmente svincolate dai riferimenti progettuali, per poi andare a verificare solo in seguito la rispondenza di questa sperimentazione con un determinato repertorio tipologico. Tenendo conto, però, che la prima idea non può mai essere deduttiva, in quanto il primo obiettivo di ogni insegnamento deve essere quello di spingere gli studenti ad avere fiducia in sé stessi, anche a costo di togliere loro ogni sicurezza. Questo perché devono capire che la progettazione è molto difficile e che, quindi, il dubbio è parte fondamentale del progettare. Per cui, dal punto di vista pedagogico, la mancanza di un riferimento progettuale diretto, da replicare per via imitativa, e la conseguente messa in crisi del progetto che da questa deriva servono soltanto a far prendere agli studenti fiducia in sé stessi. Così come tutto il processo di discussione e, per così dire, di decostruzione del progetto che prende forma durante le revisioni serve a consolidare la loro consapevolezza su alcuni punti fermi, di cui diventano certi critica dopo critica.
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Non c’è dubbio che uno dei temi di fondo, in questo campo, sia quello che riguarda il rapporto tra una certa forma di dogmatismo, la libertà di pensiero e, soprattutto, la libertà di sperimentazione. Ma anche se io spingo molto gli studenti a sperimentare in piena libertà, non si tratta di quel tipo di laissez-faire che risponde a un modello iper-liberale. Bisogna sempre far capire agli studenti quali sono le priorità, insegnando quali sono i valori più importanti, ognuno secondo la propria impostazione e la propria idea di architettura. Per me, per esempio, è molto importante la spazialità interna di un edificio, piuttosto che il suo aspetto esteriore, mentre per Snozzi, con cui ho lavorato tanti anni, era il rapporto con il luogo o, meglio, il tipo di inserimento architettonico, a essere determinante. Ma è proprio la complessità del progetto architettonico che ci permette di stabilire le nostre priorità, decidendo quali cose siano più importanti di altre.
Sul tema della moltiplicazione dei modelli, poi, mi preoccupa molto che questo coincida con un momento storico segnato dall’iperconsumo dell’immagine. Forse proprio perché sono sempre stato interessato al tema dello spazio che viene vissuto ed esperito con il corpo, e alla dimensione tattile dell’architettura che, in certo senso, va oltre il visuale. Ma anche a quella narrativa che consente di parlare dello spazio attraverso l’esperienza del percorso, il racconto temporale e l’esperienza diretta che, ugualmente, va oltre il principio delle immagini. In ogni caso, credo che oggi sia più che mai necessario dire sempre agli studenti di stare estremamente attenti al consumo delle immagini, chiedendo loro «cosa volete far vedere?». Perché personalmente a me interessa molto di più la loro capacità di immaginazione che l’immagine in sé, esattamente come mi interessa più il fatto che comprendano l’aspetto primordiale dello spazio. Per questo insisto molto sui plastici, invece che sulle immagini, perché imparino a ragionare su quelli ritengo siano i valori fondamentali dell’architettura.
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Su questo tema [la professionalizzazione], anche se so di rappresentare una posizione ormai minoritaria, devo dire che vedo la crisi di questo modello di insegnamento come qualcosa di molto negativo. Anche se, da un certo punto di vista, non del tutto ingiustificata. Questo perché, negli ultimi anni, soprattutto grazie all’apertura internazionale del sistema universitario globale, si è creato per questa figura professionale un certo tipo di mercato accademico, alimentato anche da mostre e riviste, che è del tutto autoreferenziale. E in cui l’insegnamento che i professionisti offrono non ha niente a che fare con la propria pratica, ma con una sperimentazione, in un certo senso, schizofrenica il cui ultimo fine è la realizzazione di un prodotto fotogenico, al di là del contenuto.
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[…] penso vada ripensato totalmente il rapporto tra professione e formazione accademica, e, in questo senso, proprio il ruolo delle scuole. Nel senso che dobbiamo provare a capire a cosa serva una scuola nel suo rapporto critico con la professione e, quindi, quale sia il vero obiettivo della formazione in questo campo. Una buona scuola di architettura dovrebbe idealmente far nascere e crescere negli studenti una profonda e autentica passione per l’architettura, ma dobbiamo anche ricordare che non tutti i laureati diventeranno necessariamente architetti di professione. Perché siamo ancora troppo legati all’idea di immaginare gli studenti come futuri titolari di uno studio, quando in realtà dovremmo pensare che quella in cui lavoriamo non è una scuola di architetti, ma di architettura, con tutto ciò che in termini di opportunità professionali questo comporta. Oggi, quindi, è più importante che mai ragionare sul ruolo dei professionisti all’interno dell’università, oltre che delle competenze che possono portare. Ma bisogna farlo con un’autorevolezza che sia capace di mettere in discussione il modello che sembra essersi ormai affermato, per cercare nuovamente quella contaminazione con la realtà a cui accennavo prima.