Section
Design Toolkit for
Design Teaching
The Recovery Demand
and the Educational Supply
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about_en
DT2 – The Recovery Demand and the Educational Supply: A Design Toolkit for Design Teaching is a research project, an exchange platform, and a repository of knowledge on the role of architectural education in a time marked by multiple crises, which specifically focuses on the pedagogical model of the design studio.
Its aim is to understand how to promote among future architects a critical vision of design that overcomes the traditional separation of specialized knowledge in the field to devise integrated and interrelated answers to those crises.
For this reason, it looks at the specific place where architectural design is taught as the activity of coordination and control of all the processes, practices, and expertise that guide any spatial transformations – namely the design studio.
And assuming the integration of all these factors as the true specialistic knowledge of architectural design, it studies all the procedural characteristics that make the studio an immersive training environment based on non-discursive forms of transmission.
DT2 therefore collects a series of outstanding teaching practices and analyzes the aspects that define their methodological infrastructure – like the organization of the class, the calendar, or the coordination with other courses – to provide the basis for their reformulation according to multiple emerging issues.
DT2 – The Recovery Demand and the Educational Supply: A Design Toolkit for Design Teaching è un progetto di ricerca, una piattaforma di scambio e uno spazio informativo sul ruolo della formazione architettonica in un periodo segnato da molteplici crisi, che si concentra sul modello pedagogico del laboratorio di progettazione.
Il suo obiettivo è capire come promuovere tra i futuri architetti una visione critica del progetto che superi la tradizionale separazione delle conoscenze specialistiche nel campo per immaginare risposte integrate a queste situazioni critiche.
Per questo, DT2 guarda al luogo specifico in cui viene insegnata la progettazione architettonica come attività di coordinamento e controllo di tutti i processi, le pratiche e le competenze che guidano ogni trasformazione spaziale – ovvero il laboratorio di progettazione.
E assumendo l’integrazione di tutti questi fattori come il vero sapere specialistico della progettazione architettonica, il progetto studia tutte le caratteristiche procedurali che rendono il laboratorio un ambiente di apprendimento immersivo basato su forme di trasmissione non discorsive.
DT2 raccoglie quindi una serie di pratiche didattiche notevoli e analizza gli aspetti che ne definiscono l’infrastruttura metodologica – come l’organizzazione della classe, il calendario o il coordinamento con altri corsi – per fornire le basi per la loro riformulazione in base a molteplici domande emergenti.
Partners
Politecnico di Milano
Università degli Studi di Napoli Federico IIPeople
Politecnico di Milano
DAStU Dipartimento di Architettura e Studi Urbani
Jacopo Leveratto (PI)
Greta Allegretti
ABC Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle costruzioni e Ambiente costruito
Tommaso Brighenti
Università degli Studi di Napoli Federico II
DiARC Dipartimento di Architettura
Alberto Calderoni (AI)
Marianna Ascolese
Viviana Saitto
Luigiemanuele AmabileDT2 has been funded by the Italian Ministry of University and Research – MUR under the program PRIN 2022
DT2 has been funded by The European Union – Next Generation EU.
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Summer School L′architettura della didattica
Call for participants
Summer School
L′architettura della didatticaDeadline 16 giugno 2025
Apertura della Call
28 maggio 2025Chiusura della Call
16 giugno 2025Accettazione
23 giugno 2025Villa Orlandi, Anacapri
Isola di CapriA cura di
Alberto Calderoni
con Marianna Ascolese, Tommaso Brighenti, Jacopo Leveratto, Viviana SaittoOrganizzazione a cura di
Greta Allegretti, Luigiemanuele Amabile, Maria Masi, Salvatore Pesarino
“L′architettura della didattica” intende esplorare le prospettive offerte dalla ricerca accademica applicata alla costruzione di metodologie per il laboratorio di progettazione architettonica. Cinque workshop tematici – contesti, modi, tempi, spazi, strumenti – offriranno un′occasione di confronto critico per definire contenuti, modelli e strategie capaci di rispondere a specifiche esigenze formative e a domande emergenti.
La Summer School “L′architettura della didattica” sarà il luogo entro cui si intenderà investigare possibili proposte di progetti pedagogici, nello specifico gruppo scientifico disciplinare della progettazione architettonica, da sostanziarsi a partire dalle attività di ricerca di dottorandi, dottori di ricerca e assegnisti. L′obiettivo della Summer School è sollecitare i partecipanti a sviluppare una proposta individuale di un programma didattico – un brief – attraverso l′esplicitazione di modelli di riferimento, modalità applicative, contesti fisici, tempi e strumenti, propri di un laboratorio di progettazione architettonica.Luogo
“L′architettura della didattica” intende esplorare le prospettive offerte dalla ricerca accademica applicata alla costruzione di metodologie per il laboratorio di progettazione architettonica. Cinque workshop tematici – contesti, modi, tempi, spazi, strumenti – offriranno un′occasione di confronto critico per definire contenuti, modelli e strategie capaci di rispondere a specifiche esigenze formative e a domande emergenti.
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The Intelligence Age
The Intelligence Age
Symposium
10.06.2025DABC Politecnico di Milano
Politecnico di Milano
Aula 16 B 0.1 – Building 16 B
Via Bonardi, 9, 20133, Milanofrom 9:30 to 18:30
Symposium organized by
Elena Manferdini, Tommaso Brighenti, Elvio Manganaro
With contributions from
Alice Barale, Adil Bokhari, Neil Leach, Elena Manferdini,
Areti Markopoulou, Philippe Morel, Ingrid Paoletti,
Pierpaolo Ruttico, Theodore Spyropoulos, Jason Vigneri-BeaneSessions moderated by
Jacopo Leveratto and Elena Manferdini
As artificial intelligence reshapes how architects work, how should architectural education and research adapt? What should a curriculum look like when the profession it prepares students for is being rewritten in real time?
Organized by the Department of Architecture, Building Engineering, and the Built Environment at Politecnico di Milano and supported by DT2 research project, The Intelligence Age is a public symposium dedicated to examining the evolving role of Artificial Intelligence in architectural education and practice. Taking place on June 10th, 2025, the event brings together leading voices from renowned international institutions to foster dialogue, exchange ideas, and question the shifting landscape of design in the age of intelligence.The symposium serves as a platform for meaningful engagement among educators, researchers, and practitioners, offering a day of conversations structured around thematic duets – paired discussions that allow for contrasting and complementary perspectives. This unique format encourages critical reflection and dynamic interaction across institutional and disciplinary boundaries. Participating schools include SCI-Arc, University of Florida, IAAC, AA-DRL, ETH Zurich, PRATT Institute, The Bartlett School of Architecture, Università degli Studi di Milano, and Politecnico di Milano as the host institution. Their collective involvement highlights the global dimension of this discourse and underscores the shared urgency of redefining pedagogy, and practice in light of AI’s increasing influence. By bringing together a diverse and international academic community, The Intelligence Age positions itself as a landmark event for Politecnico di Milano – a leading institution at the forefront of technology, creativity, and architectural education.
Luogo
With contributions from Alice Barale, Adil Bokhari, Neil Leach, Elena Manferdini, Areti Markopoulou, Philippe Morel, Ingrid Paoletti, Pierpaolo Ruttico, Theodore Spyropoulos, Jason Vigneri-Beane
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Dieter Dietz. Resonance. Protostructures / Protofigures. Dispositions for Emergent Design
Dieter Dietz. Resonance. Protostructures / Protofigures. Dispositions for Emergent Design
Lezione di Dieter Dietz
13.05.2025DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula Rabitti, V piano, scala E
via Forno Vecchio 36, Napoliore 16:00
Seminario organizzato con il contributo del dottorato di ricerca Habit in Transition del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Saluti
Massimo Perriccioli
Coordinatore Dottorato Habit
Università degli Studi di Napoli Federico II
Introduzione
Alberto Calderoni
AI PRIN 2022 DT2
Università degli Studi di Napoli Federico II
Lezione di Dieter Dietz
Associate Professor
Director of ALICE Laboratory
École Polytechnique Fédérale de Lausanne
Discussants
Luigiemanuele Amabile
Marianna Ascolese
Gianluigi Freda
Viviana Saitto
Università degli Studi di Napoli Federico IILuogo
Saluti di Massimo Perriccioli. Introduzione di Alberto Calderoni. Lezione di Dieter Dietz. Discussants: Luigiemanuele Amabile, Marianna Ascolese, Gianluigi Freda, Viviana Saitto.
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Design Teaching for Design Making
Carlana Mezzalira Pentimalli. Quello che stiamo imparando
Lezione di Michel Carlana (IUAV)
Preferisco l’atto del conoscere alla conoscenza
Lezione di Enrico Molteni (Università di Genova)
28.04.2025DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula LT-S1.1
Palazzo Latilla
via Tarsia 31, Napoliore 14:30
Ciclo di seminari a cura di
Luigiemanuele Amabile e Alberto Calderoni
Con gli interventi di
Marella Santangelo, Alberto Calderoni, Luigiemanuele Amabile,
Marianna Ascolese e Viviana SaittoPresentando modalità didattiche e infrastrutture metodologiche che sostanziano la pratica del progettare, il ciclo di seminari intende investigare, attraverso l’analisi delle esperienze di insegnamento, ricerca e professione condotte da alcuni architetti e docenti italiani ed europei, un campo di azione in cui l’insegnamento del progetto di architettura possa configurarsi come uno strumento necessario non soltanto per riconoscere le domande emergenti, complesse e in perenne evoluzione, ma anche per fornire risposte.
Luogo
Con gli interventi di Marella Santangelo, Alberto Calderoni, Luigiemanuele Amabile, Marianna Ascolese e Viviana Saitto
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Traces: Reading Landscape and Space
Traces: Reading Landscape and Space
Lezione di Uta Graff (TU Munich)
15.04.2025DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula Rabitti, V piano
via Fornovecchio 36, Napoliore 14:30
Ciclo di seminari a cura di
Luigiemanuele Amabile e Alberto Calderoni
Con gli interventi di
Marella Santangelo, Massimo Perriccioli, Alberto Calderoni,
Luigiemanuele Amabile, Marianna Ascolese e Viviana SaittoPresentando modalità didattiche e infrastrutture metodologiche che sostanziano la pratica del progettare, il ciclo di seminari intende investigare, attraverso l’analisi delle esperienze di insegnamento, ricerca e professione condotte da alcuni architetti e docenti europei, un campo di azione in cui l’insegnamento del progetto di architettura possa configurarsi come uno strumento necessario non soltanto per riconoscere le domande emergenti, complesse e in perenne evoluzione, ma anche per fornire risposte.
Seminario organizzato con il contributo del dottorato di ricerca Habit in Transition del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”Luogo
Con gli interventi di Marella Santangelo, Massimo Perriccioli, Alberto Calderoni, Luigiemanuele Amabile, Marianna Ascolese e Viviana Saitto.
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Call for abstracts
Call for abstracts
Il progetto della didattica del progetto.
Domande per tempi criticiDeadline
15 settembre 2024Deadline
15 settembre 2024International conference
Politecnico di Milano
11 novembre 2024↓ Call for abstracts.pdf
Application formComitato scientifico
Marianna Ascolese
Università degli Studi di Napoli Federico II
Tommaso Brighenti
Politecnico di Milano
Alberto Calderoni
Università degli Studi di Napoli Federico II
Jacopo Leveratto
Politecnico di Milano
Viviana Saitto
Università degli Studi di Napoli Federico IIOrganizzazione a cura di
Luigiemanuele Amabile
Università degli Studi di Napoli Federico II
Greta Allegretti
Politecnico di MilanoLuogo
Come si progetta la didattica del progetto? Al di là di specifiche questioni emergenti, la domanda che il titolo pone, su come, cioè, vadano pensati i laboratori di progettazione architettonica, è sempre e comunque valida. Per il motivo che, essendo ogni progetto intrinsecamente specifico e situato, non esiste una risposta univoca a quella domanda che possa essere genericamente applicata.
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Le diverse forme
Le diverse forme del laboratorio di progettazione.
Offerta formativa e modelli alternativi
26.06.2024Politecnico di Milano
Dipartimento
di Architettura e Studi Urbani
Politecnico di Milano
Edificio 29 “Carta”, Sala Consiglio, I piano
Piazza Leonardo da Vinci 26, Milanoore 15:00
A cura di
Jacopo Leveratto
Tommaso BrighentiOrganizzazione
Greta Allegretti
Francesco Martinazzo
Andrea ValvasonCon gli interventi di Jacopo Leveratto, Tommaso Brighenti, Greta Allegretti, Francesco Martinazzo e Andrea Valvason e una tavola rotonda con Michela Bassanelli, Francesca Belloni, Giulia Cazzaniga, Federico Di Cosmo, Elvio Manganaro, Giulia Setti, Claudia Tinazzi e Valerio Tolve.
Luogo
Con gli interventi di Jacopo Leveratto, Tommaso Brighenti, Greta Allegretti, Francesco Martinazzo e Andrea Valvason e una tavola rotonda con Michela Bassanelli, Francesca Belloni, Giulia Cazzaniga, Federico Di Cosmo, Elvio Manganaro, Giulia Setti, Claudia Tinazzi e Valerio Tolve.
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Strategie e prospettive
Strategie e prospettive pedagogiche per il progetto di architettura.
Una generazione a confronto
17.05.2024DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula Rabitti, V piano
via Fornovecchio 36, Napoliore 9:30
A cura di
Marianna Ascolese
Alberto Calderoni
Viviana SaittoOrganizzazione
Luigiemanuele Amabile
Con gli interventi di Marianna Ascolese, Adriana Bernieri, Daniela Buonanno, Alberto Calderoni, Francesca Coppolino, Bruna Di Palma, Orfina Fatigato, Gianluigi Freda, Paola Galante, Viviana Saitto e Giovangiuseppe Vannelli e una tavola rotonda con Roberta Amirante, Nicola Flora, Ferruccio Izzo, Carmine Piscopo, Marella Santangelo, e tutti gli intervenuti.
Luogo
Con gli interventi di Marianna Ascolese, Adriana Bernieri, Daniela Buonanno, Alberto Calderoni, Francesca Coppolino, Bruna Di Palma, Orfina Fatigato, Gianluigi Freda, Paola Galante, Viviana Saitto e Giovangiuseppe Vannelli e una tavola rotonda con Roberta Amirante, Nicola Flora, Ferruccio Izzo, Carmine Piscopo, Marella Santangelo, e tutti gli intervenuti.
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Kick-off
DT2 Kick-off Meeting
22.02.2024DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula Rabitti, V piano
via Fornovecchio 26, Napoliore 9:30
A cura di
Alberto Calderoni
Viviana SaittoOrganizzazione
Luigiemanuele Amabile
Marianna AscoleseConferenza di apertura del progetto DT2, per iniziare a discutere di didattica del progetto e del progetto della didattica, a proposito della situazione italiana, della prospettiva europea, di cosa sta cambiando e di cosa deve cambiare. Con gli interventi di Roberta Amirante, Lidia Gasperoni e Ilaria Valente, e una tavola rotonda con Domenico Chizzoniti, Nicola Flora, Angelo Lorenzi, Pierluigi Salvadeo, Marella Santangelo e Federica Visconti.
Luogo
Conferenza di apertura del progetto DT2, per iniziare a discutere di didattica del progetto e del progetto della didattica, a proposito della situazione italiana, della prospettiva europea, di cosa sta cambiando e di cosa deve cambiare.
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Summer School L′architettura della didattica
Call for participants
Summer School
L′architettura della didatticaDeadline 16 giugno 2025
Apertura della Call
28 maggio 2025Chiusura della Call
16 giugno 2025Accettazione
23 giugno 2025Villa Orlandi, Anacapri
Isola di CapriA cura di
Alberto Calderoni
con Marianna Ascolese, Tommaso Brighenti, Jacopo Leveratto, Viviana SaittoOrganizzazione a cura di
Greta Allegretti, Luigiemanuele Amabile, Maria Masi, Salvatore Pesarino
“L′architettura della didattica” intende esplorare le prospettive offerte dalla ricerca accademica applicata alla costruzione di metodologie per il laboratorio di progettazione architettonica. Cinque workshop tematici – contesti, modi, tempi, spazi, strumenti – offriranno un′occasione di confronto critico per definire contenuti, modelli e strategie capaci di rispondere a specifiche esigenze formative e a domande emergenti.
La Summer School “L′architettura della didattica” sarà il luogo entro cui si intenderà investigare possibili proposte di progetti pedagogici, nello specifico gruppo scientifico disciplinare della progettazione architettonica, da sostanziarsi a partire dalle attività di ricerca di dottorandi, dottori di ricerca e assegnisti. L′obiettivo della Summer School è sollecitare i partecipanti a sviluppare una proposta individuale di un programma didattico – un brief – attraverso l′esplicitazione di modelli di riferimento, modalità applicative, contesti fisici, tempi e strumenti, propri di un laboratorio di progettazione architettonica. -
The Intelligence Age
The Intelligence Age
Symposium
10.06.2025DABC Politecnico di Milano
Politecnico di Milano
Aula 16 B 0.1 – Building 16 B
Via Bonardi, 9, 20133, Milanofrom 9:30 to 18:30
Symposium organized by
Elena Manferdini, Tommaso Brighenti, Elvio Manganaro
With contributions from
Alice Barale, Adil Bokhari, Neil Leach, Elena Manferdini,
Areti Markopoulou, Philippe Morel, Ingrid Paoletti,
Pierpaolo Ruttico, Theodore Spyropoulos, Jason Vigneri-BeaneSessions moderated by
Jacopo Leveratto and Elena Manferdini
As artificial intelligence reshapes how architects work, how should architectural education and research adapt? What should a curriculum look like when the profession it prepares students for is being rewritten in real time?
Organized by the Department of Architecture, Building Engineering, and the Built Environment at Politecnico di Milano and supported by DT2 research project, The Intelligence Age is a public symposium dedicated to examining the evolving role of Artificial Intelligence in architectural education and practice. Taking place on June 10th, 2025, the event brings together leading voices from renowned international institutions to foster dialogue, exchange ideas, and question the shifting landscape of design in the age of intelligence.The symposium serves as a platform for meaningful engagement among educators, researchers, and practitioners, offering a day of conversations structured around thematic duets – paired discussions that allow for contrasting and complementary perspectives. This unique format encourages critical reflection and dynamic interaction across institutional and disciplinary boundaries. Participating schools include SCI-Arc, University of Florida, IAAC, AA-DRL, ETH Zurich, PRATT Institute, The Bartlett School of Architecture, Università degli Studi di Milano, and Politecnico di Milano as the host institution. Their collective involvement highlights the global dimension of this discourse and underscores the shared urgency of redefining pedagogy, and practice in light of AI’s increasing influence. By bringing together a diverse and international academic community, The Intelligence Age positions itself as a landmark event for Politecnico di Milano – a leading institution at the forefront of technology, creativity, and architectural education.
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Dieter Dietz. Resonance. Protostructures / Protofigures. Dispositions for Emergent Design
Dieter Dietz. Resonance. Protostructures / Protofigures. Dispositions for Emergent Design
Lezione di Dieter Dietz
13.05.2025DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula Rabitti, V piano, scala E
via Forno Vecchio 36, Napoliore 16:00
Seminario organizzato con il contributo del dottorato di ricerca Habit in Transition del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Saluti
Massimo Perriccioli
Coordinatore Dottorato Habit
Università degli Studi di Napoli Federico II
Introduzione
Alberto Calderoni
AI PRIN 2022 DT2
Università degli Studi di Napoli Federico II
Lezione di Dieter Dietz
Associate Professor
Director of ALICE Laboratory
École Polytechnique Fédérale de Lausanne
Discussants
Luigiemanuele Amabile
Marianna Ascolese
Gianluigi Freda
Viviana Saitto
Università degli Studi di Napoli Federico II -
Design Teaching for Design Making
Carlana Mezzalira Pentimalli. Quello che stiamo imparando
Lezione di Michel Carlana (IUAV)
Preferisco l’atto del conoscere alla conoscenza
Lezione di Enrico Molteni (Università di Genova)
28.04.2025DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula LT-S1.1
Palazzo Latilla
via Tarsia 31, Napoliore 14:30
Ciclo di seminari a cura di
Luigiemanuele Amabile e Alberto Calderoni
Con gli interventi di
Marella Santangelo, Alberto Calderoni, Luigiemanuele Amabile,
Marianna Ascolese e Viviana SaittoPresentando modalità didattiche e infrastrutture metodologiche che sostanziano la pratica del progettare, il ciclo di seminari intende investigare, attraverso l’analisi delle esperienze di insegnamento, ricerca e professione condotte da alcuni architetti e docenti italiani ed europei, un campo di azione in cui l’insegnamento del progetto di architettura possa configurarsi come uno strumento necessario non soltanto per riconoscere le domande emergenti, complesse e in perenne evoluzione, ma anche per fornire risposte.
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Traces: Reading Landscape and Space
Traces: Reading Landscape and Space
Lezione di Uta Graff (TU Munich)
15.04.2025DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula Rabitti, V piano
via Fornovecchio 36, Napoliore 14:30
Ciclo di seminari a cura di
Luigiemanuele Amabile e Alberto Calderoni
Con gli interventi di
Marella Santangelo, Massimo Perriccioli, Alberto Calderoni,
Luigiemanuele Amabile, Marianna Ascolese e Viviana SaittoPresentando modalità didattiche e infrastrutture metodologiche che sostanziano la pratica del progettare, il ciclo di seminari intende investigare, attraverso l’analisi delle esperienze di insegnamento, ricerca e professione condotte da alcuni architetti e docenti europei, un campo di azione in cui l’insegnamento del progetto di architettura possa configurarsi come uno strumento necessario non soltanto per riconoscere le domande emergenti, complesse e in perenne evoluzione, ma anche per fornire risposte.
Seminario organizzato con il contributo del dottorato di ricerca Habit in Transition del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” -
Call for abstracts
Call for abstracts
Il progetto della didattica del progetto.
Domande per tempi criticiDeadline
15 settembre 2024Deadline
15 settembre 2024International conference
Politecnico di Milano
11 novembre 2024↓ Call for abstracts.pdf
Application formComitato scientifico
Marianna Ascolese
Università degli Studi di Napoli Federico II
Tommaso Brighenti
Politecnico di Milano
Alberto Calderoni
Università degli Studi di Napoli Federico II
Jacopo Leveratto
Politecnico di Milano
Viviana Saitto
Università degli Studi di Napoli Federico IIOrganizzazione a cura di
Luigiemanuele Amabile
Università degli Studi di Napoli Federico II
Greta Allegretti
Politecnico di Milano -
Le diverse forme
Le diverse forme del laboratorio di progettazione.
Offerta formativa e modelli alternativi
26.06.2024Politecnico di Milano
Dipartimento
di Architettura e Studi Urbani
Politecnico di Milano
Edificio 29 “Carta”, Sala Consiglio, I piano
Piazza Leonardo da Vinci 26, Milanoore 15:00
A cura di
Jacopo Leveratto
Tommaso BrighentiOrganizzazione
Greta Allegretti
Francesco Martinazzo
Andrea ValvasonCon gli interventi di Jacopo Leveratto, Tommaso Brighenti, Greta Allegretti, Francesco Martinazzo e Andrea Valvason e una tavola rotonda con Michela Bassanelli, Francesca Belloni, Giulia Cazzaniga, Federico Di Cosmo, Elvio Manganaro, Giulia Setti, Claudia Tinazzi e Valerio Tolve.
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Strategie e prospettive
Strategie e prospettive pedagogiche per il progetto di architettura.
Una generazione a confronto
17.05.2024DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula Rabitti, V piano
via Fornovecchio 36, Napoliore 9:30
A cura di
Marianna Ascolese
Alberto Calderoni
Viviana SaittoOrganizzazione
Luigiemanuele Amabile
Con gli interventi di Marianna Ascolese, Adriana Bernieri, Daniela Buonanno, Alberto Calderoni, Francesca Coppolino, Bruna Di Palma, Orfina Fatigato, Gianluigi Freda, Paola Galante, Viviana Saitto e Giovangiuseppe Vannelli e una tavola rotonda con Roberta Amirante, Nicola Flora, Ferruccio Izzo, Carmine Piscopo, Marella Santangelo, e tutti gli intervenuti.
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Kick-off
DT2 Kick-off Meeting
22.02.2024DiARC Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento di Architettura
Università degli Studi di Napoli Federico II
Aula Rabitti, V piano
via Fornovecchio 26, Napoliore 9:30
A cura di
Alberto Calderoni
Viviana SaittoOrganizzazione
Luigiemanuele Amabile
Marianna AscoleseConferenza di apertura del progetto DT2, per iniziare a discutere di didattica del progetto e del progetto della didattica, a proposito della situazione italiana, della prospettiva europea, di cosa sta cambiando e di cosa deve cambiare. Con gli interventi di Roberta Amirante, Lidia Gasperoni e Ilaria Valente, e una tavola rotonda con Domenico Chizzoniti, Nicola Flora, Angelo Lorenzi, Pierluigi Salvadeo, Marella Santangelo e Federica Visconti.
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Atlas
Approaches
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Architecture within uncertainty
Luigiemanuele Amabile in conversation with Christoph Grafe. LA: Which challenges in our built and natural environments should today’s architectural design studios engage with? CG: Reuse and adaptation of buildings – as cultural, aesthetic, and technical questions; the needs and preferences of a culturally diverse society; regional appropriateness; the value of labour in building, and the…
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Questioning typologies, or the hybrid future of architectural design
Luigiemanuele Amabile in conversation with Andreas Lechner. LA: What challenges related to the built and natural environment should an architectural design studio confront today? AL: I consider myself a hybrid practitioner – someone who deliberately navigates and often blurs the boundaries between theory, practice, and pedagogy. Yet no matter how broad the investigative field, the…
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We don’t have all the answers – we explore together
Luigiemanuele Amabile in conversation with Marius Grootveld. LA: How does granting students autonomy over their research trajectories impact motivation, critical engagement, and the coherence of studio discourse, and how should this autonomy be balanced with structured guidance? MG: At the beginning of each studio, I try to instil a sense of responsibility in the students…
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Teaching repetition
Valentina Noce in conversation with Andreas Lechner. VN: The first thing I wanted to talk to you about is my struggle when teaching between two kinds of approaches. The first one is almost like a psychological, psychotherapy approach to students – where you act as a kind of disturbing observer. You let the students do what…
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Teaching architecture in a fragmented world
Luigiemanuele Amabile in conversation con Wolfgang Brune. LA: What issues in the built and natural environment should an architectural design studio address today? WB: The question is related to all the well-known general issues that we have to deal with today: Sustainability, recycling, emissions reduction, resource conservation, social responsibility and so on. That’s very true.…
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The pedagogy of the complete gesture
The philosophy of the gesture originates within American pragmatism, whose essential characteristic is that it is an anti-dichotomous philosophy, standing against the distinctions between description/norm, body/spirit, mind/brain, theory/practice, and so on – distinctions rooted in Cartesian and Kantian culture. Of course, we are talking about a certain interpretation of Descartes and a certain interpretation of…
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The design studio as a research program
“Sense of possibility”: without that, the pedagogy of design studios would make no sense, precisely. With the 1993 reform, courses in architectural composition and design began to be called studios because it was recognized that architectural design is learned by doing; but perhaps it was not stated just as clearly that in design studios, doing…
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Experimental pedagogy and design studio
Rethinking pedagogy at an experimental level means renegotiating a field of themes and practices in order to train architects capable of confronting the challenges of the contemporary world and projecting them into the future. This entails reestablishing a creative balance between the construction sector and architecture as one of the principal inventive practices contributing to…
Schools
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Rigor and Synthesis
Luigiemanuele Amabile in conversation with Nuno Valentim Lopes. LA: What do you think makes FAUP in Porto unique compared to other European schools you’ve been in contact with? NV: I believe that FAUP is one of the last strongholds of the Beaux-Arts approach to education in contemporary Europe. Rather than focusing on individual figures, our…
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The studio environment
In American schools, particularly those we might define as elite, there has always been – or there was for a long time – a strong emphasis on experimentation, meaning an attempt to push boundaries in order to explore ways and approaches to thinking about architecture that presumably are not immediately applicable in the professional field…
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Notes for a systematics of the educational project
I have always been deeply interested in discussing pedagogy; I believe it’s crucial to reflect on this topic. Not only from a theoretical standpoint but especially starting from how I personally have addressed practical problems that have arisen in this field across the various universities where I have taught and in relation to the role…
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The Italian difference in architectural education
Teaching experience in other faculties, in other places, in other countries has indeed been essential for me to understand whether and what the differences are compared to our system. But before addressing this issue, I want to touch on a specifically Italian matter that worries me greatly and concerns the present; a negative difference compared…
Programs
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Crush-up: collaborations for architectural futures
Luigiemanuele Amabile in conversation with Ignacio Borrego LA: Which challenges – both within the physical context and the wider natural environment – ought contemporary architectural design studios to engage with, and why are these concerns pressing for the formation of tomorrow’s architects? IB: We believe at our department (CoLab – Collaborative Design Laboratory) at the…
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Designing transitions: transdisciplinary urban and territorial pedagogies
Konstantinos Venis in conversation with Nancy Couling and Tommaso Pietropolli. KV: The selection criteria were the characteristics and curriculum of your programme. It is a transdisciplinary joint programme focusing on design as a tool of synthesis in a transdisciplinary environment, integrating urban studies, postcolonial thought, the Anthropocene, and interdisciplinary approaches in site-specific work across urban…
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Building narratives for communities
The world of architectural education is becoming more complex with each passing year. At the turn of the millennium, design culture found itself having to face challenges that once seemed far from the world of “bella forma”, of an architecture that, at least in Europe, until not long ago spoke of the autonomy of the…
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The capacity for (general) vision as a necessary specialism
I will begin with a statement that I know today risks being seen as outdated: the design studio is and must continue to be the “backbone” of architectural studies. […] Not even the recent reform of the degree classes introduced by Ministerial Decrees no. 1648 and no. 1649, respectively for bachelor’s and master’s degrees, in…
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Coherence and the role of the design studio
Recent history has shown that, in the specific case of the most genuinely original educational experiences in the field of architecture, what defines the character, motivation, specificity, and all the peculiar features of experimental teaching are identified simply with a school, not with a department, and even less with a degree program. On the other…
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Architecture in a small school
A contribution that seems interesting to me, regarding the experimentation that can be carried out within Design Studios, is the one we have been developing for several years now in the Master’s Degree course active at the Mantua Territorial Campus. […] The course was conceived around a prevailing theme concerning the relationship between architectural design…
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Shifting identities
I believe that, in order to try to define the role of the design studio in a school of architecture, it is first necessary to ask what the meaning of design is in relation to the current conditions of urban space, and more generally, of inhabited space. These are ever-changing conditions that are shaped by…
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The project for a new degree program
For the new Master’s degree program in Architecture for Communities, Territories and the Environment at DIARC, we chose to begin by outlining the fields and contexts in which an architect can operate today, beyond traditional areas of action, focusing carefully on the present, on the ongoing social and cultural changes, on humanity and the environment;…
Courses
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Form is not enough
Luigiemanuele Amabile in conversation with Bernadette Krejs. The architectural design studio is at a critical juncture. As the field of architecture confronts its role in ecological collapse and social inequity, traditional pedagogical approaches centred on form and individual authorship are increasingly being seen as insufficient. Bernadette Krejs of the Institute of Housing and Design at…
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Precision and experimentation in the design studio
Luigiemanuele Amabile in conversation with Mikael Bergquist LA: What issues in the built and natural environment should an architectural design studio address today? MB: Architectural education needs to address many questions. Social: How should we live together?; questions about technical issues and material; sustainability and adoptability; how to work with the existing. We must also…
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Teaching, conflicts, ecology
Maria Masi in conversation with Miguel Mesa del Castillo Clavel. MM: Your work moves between architectural design, academic research, and intensive teaching activity, and is marked by a consistent interest in the relationship between space, ecologies, and society. How do these experiences influence the structure of your courses, and what relationships do they weave between…
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The studio in numbers
The role of the design studio within architecture schools is characterized by a dual identity. On one hand, it is a foundational and strongly constitutive element of the educational offering for students, who find in the laboratory the opportunity to engage and challenge themselves with the discipline of design. The design laboratory, in fact, defines…
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Rigor and Synthesis
Luigiemanuele Amabile in conversation with Nuno Valentim Lopes.
LA: What do you think makes FAUP in Porto unique compared to other European schools you’ve been in contact with?
NV: I believe that FAUP is one of the last strongholds of the Beaux-Arts approach to education in contemporary Europe. Rather than focusing on individual figures, our teaching is centred around collectivity. There are no design studios tied to specific professors; instead, all students in the same year work on the same theme. Students use hand-drawing techniques and are not permitted to use computers until their third year. Some might call this approach outdated, but I believe it ensures a certain quality by shaping well-rounded architects who are capable of tackling diverse tasks with an autonomous design vision. The course structure follows well-defined pedagogical trajectories – design, drawing, history, theory and construction – ensuring methodological rigour. If there’s one aspect I’d improve, it would be to deepen the focus on existing built heritage. Following university reforms, attention to these themes has diminished, making way for a more condensed curriculum. I believe it would be beneficial to reintroduce modules on reuse and historical heritage management during the first three years without making them isolated, specialised courses. In answer to your question, if I had to pinpoint FAUP’s distinctive trait, I would say it is the classical training of the architect as author. You might wonder if there are still studios tied to renowned architects today; they have almost entirely disappeared. However, this doesn’t mean that this kind of foundational training isn’t valuable in any field. Architects are masters of generality, not specialists, and their strength lies in solid design training. Design, as we know, is synonymous with synthesis.
LA: How does your school position itself in relation to contemporary issues such as the climate and housing crises?
NV: Five years of education isn’t enough time to cover all topics in depth. One of the main challenges is selecting which themes to address. In my opinion, sustainability and the climate crisis should be integrated into existing courses such as Design and Construction rather than creating specialised courses that chase every new trend or urgency. I’d prefer these topics to be treated as specific aspects of broader subjects rather than becoming isolated specialisations. This is an important distinction. We’re not engineers; we don’t train narrowly focused technicians. When it comes to built heritage, for example, specialists often produce questionable results precisely because they lack an articulated, comprehensive vision of design. This is why, even when addressing current issues, we must adopt a broad perspective on architecture, rather than viewing it in fragments.
LA: How does collaboration between the different disciplines of design, construction and structures translate into the practical management of the design studio?
NV: The real potential lies in aligning student assignments. During the second semester, for example, the Design and Construction departments could assign the same theme, enabling students to apply their structural and design knowledge simultaneously. The biggest challenge is horizontal coordination: getting colleagues with different teaching methods to work together requires careful planning, flexibility and a great deal of professional generosity. When we succeed, the result is a design process rich in integrated insights, where the technical and creative dimensions reinforce each other.
LA: Do you think the spatial configuration of FAUP’s building, designed by Álvaro Siza, influences the learning experience?
NV: I consider it an open book of architecture, where every corner and construction detail is worthy of careful examination. The atelier spaces, which vary in size and relationship with the outdoors, encourage drawing, surveying and modelling. This reduces the need to leave the classroom to find useful examples to observe and incorporate into projects. The presence of rooftop gardens and sheltered outdoor spaces fosters informal discussion and student interaction. However, the spatial system has started to show some issues lately; the building was designed for 600 students, but now hosts around 1,000. The high density of students and studios makes collective work less fluid.
LA: What is the role of faculty members, and how are students expected to manage their own growth independently?
NV: Autonomy is crucial. Design studios require students to manage their time and tools effectively, and to develop initial design solutions independently. At the same time, interaction with professors, who I regard as invaluable sources of knowledge, is irreplaceable. The exchange provides validation, generates critical suggestions and guides personal choices. In an era of unlimited access to information, direct engagement with faculty remains essential for students’ professional and cultural growth.
LA: If you could change something about the organisation of the design studios, what would it be?
NV: I’d recommend rationalising lecture and studio work periods by creating structured overlaps between design and technical-scientific activities. This integration would reduce unproductive gaps and enhance the seminar model. I’d also propose incorporating themes such as working with existing heritage more frequently, as it seems fundamental for our times.
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Rigore e sintesi
Luigiemanuele Amabile in conversazione con Nuno Valentim Lopes.
LA: Rispetto alle scuole europee con cui ha avuto contatti, quale pensa sia la specificità della FAUP di Porto?
NV: Ritengo che la FAUP rappresenti uno degli ultimi bastioni dell’insegnamento beaux-arts nell’Europa contemporanea. La nostra didattica non si fonda sulle figure quanto sulla collettività; non ci sono design studio legati ai singoli docenti, ma tutti gli studenti dello stesso anno lavorano al medesimo tema. Gli studenti utilizzano il disegno a mano e non possono usare il computer fino al terzo anno. Questo modo di fare, che alcuni definirebbero anacronistico, è a mio avviso è una garanzia di un certo tipo di qualità: forma architetti completi, capaci di affrontare svariati compiti con una visione progettuale autonoma. La struttura del corso è scandita da traiettorie pedagogiche ben definite – progettazione, disegno, storia, teoria e costruzioni – che garantiscono rigore metodologico. Se c’è un aspetto che migliorerei, riguarda l’approfondimento di questioni relative al patrimonio costruito esistente. Dopo le riforme dell’insegnamento universitario, l’attenzione ai temi del costruito esistente si è ridotta, cedendo il passo a un programma più condensato. Penso sia opportuno reintrodurre moduli dedicati al riuso e alla gestione del patrimonio storico all’interno del primo triennio di studi, senza però confluire in corsi specialistici isolati. Per rispondere alla domanda, se devo identificare un tratto distintivo della FAUP, direi che è proprio la formazione classica dell’architetto-autore. Ti chiederai se ci siano ancora oggi studi legati a grandi autori. Sono quasi del tutto scomparsi. Eppure, questo non significa che quel tipo di formazione di base non possa tornare utile in qualsiasi campo. L’architetto è un maestro della generalità, non è uno specialista, e la sua forza si basa su una solida formazione progettuale. E il progetto, come sappiamo bene, è sinonimo di sintesi.
LA: In questo contesto, come si posiziona la sua scuola rispetto a temi contemporanei quali l’emergenza climatica e abitativa?
NV: Cinque anni di formazione sono pochi per affrontare tutti gli argomenti in modo esaustivo. Questa è una delle principali difficoltà: la selezione dei temi da trattare. Secondo me, la sostenibilità e l’emergenza climatica possono – e devono – essere affrontate all’interno degli insegnamenti esistenti, come Progettazione e Costruzioni, senza creare corsi specialistici che assecondano ogni nuova urgenza o novità. Preferirei che questi temi venissero trattati come specificità all’interno di insegnamenti più ampi piuttosto che diventare oggetto di specialismi. Si tratta di una distinzione importante. Noi non siamo ingegneri, non formiamo tecnici puri e specializzati. Quando si parla di patrimonio costruito, ad esempio, gli specialisti spesso rischiano di produrre risultati discutibili proprio perché mancano di una visione complessa e articolata del progetto. Per questo motivo, anche quando affrontiamo temi attuali, dobbiamo farlo mantenendo una prospettiva che guardi all’architettura in modo ampio e non frammentato.
LA: In che modo la collaborazione tra le diverse discipline – Progettazione, Costruzioni e Strutture – si traduce nella gestione pratica del laboratorio di progetto?
NV: Il vero potenziale risiede nell’allineamento delle consegne degli studenti: durante il secondo semestre, Progettazione e Costruzioni attribuiscono lo stesso tema, permettendo agli studenti di applicare simultaneamente conoscenze strutturali e progettuali. La sfida più grande è la gestione orizzontale: far dialogare colleghi con abitudini didattiche proprie richiede programmazione, flessibilità e una buona dose di generosità professionale. Quando ci riusciamo, il risultato è un processo progettuale ricco di approfondimenti integrati, in cui la dimensione tecnica e quella creativa si rafforzano a vicenda.
LA: Pensa che la configurazione spaziale dell’edificio della FAUP, progettato da Alvaro Siza, influisca sull’esperienza di apprendimento?
NV: Lo considero un vero e proprio “libro aperto” di architettura: ogni angolo, ogni dettaglio costruttivo rappresenta un elemento da sottoporre ad attento esame. Gli spazi degli atelier, diversificati per dimensione e relazione con l’esterno, favoriscono il disegno, il rilievo e la modellazione, riducendo di fatto la necessità di allontanarsi troppo dagli stessi spazi delle aule per riuscire a rintracciare esempi utili da osservare e riportare nei propri progetti. La presenza di giardini pensili e spazi esterni protetti favorisce il confronto informale e le occasioni di incontro tra gli studenti. Tuttavia, il sistema degli spazi comincia a presentare, negli ultimi tempi, anche qualche criticità: l’edificio era progettato per seicento studenti, ma oggi ne ospita circa mille. L’elevata densità di studenti e laboratori rende meno agevole il lavoro collettivo.
LA: Qual è il ruolo del corpo docente e in che modo gli studenti sono chiamati a gestire in modo autonomo la propria crescita?
NV: L’autonomia è fondamentale: i design studio richiedono che gli studenti imparino a gestire tempi e strumenti e a elaborare individualmente le prime soluzioni progettuali. Allo stesso tempo, il confronto con i docenti – che considero a tutti gli effetti come dei libri da cui attingere conoscenze – è insostituibile: lo scambio offre conferme, genera suggerimenti critici e indirizza scelte personali. In un’epoca in cui l’accesso all’informazione è illimitato, la relazione diretta con il docente resta un fattore imprescindibile per la crescita professionale e culturale dello studente.
LA: Se potessi modificare qualcosa nell’organizzazione dei design studio, cosa suggeriresti?
NV: Consiglierei di razionalizzare i periodi di lezione e di lavoro in atelier, creando sovrapposizioni stabilite di attività progettuali e tecnico-scientifiche. Questa integrazione ridurrebbe i tempi improduttivi e valorizzerebbe il modello seminariale. Inoltre, proporrei di inserire con maggiore frequenza temi come il lavoro sul patrimonio esistente, che mi sembra fondamentale per il nostro tempo.
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Luigiemanuele Amabile – Architect and PhD, research fellow of the project DT2 (UdR Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Nuno Valentim Lopes – Associated Professor FAUP, Porto; researcher at CEAU and BIOPOLIS; founder of Nuno Valentim Architecture.Casa dos Repuxos, schizzi di progetto, Miguel Paixão, 2023 Casa dos Repuxos, Immagine della proposta del parco e del percorso pubblico, Miguel Paixão, 2023 Casa dos Repuxos, Immagine della proposta del parco e del percorso pubblico, Miguel Paixão, 2023 Casa dos Repuxos, Immagine della proposta della piattaforma di osservazione delle rovine, Miguel Paixão, 2023 Aqueduto de Bonjóia:Riscoperto del sostrato archeologico, analisi dei lavori eseguiti sulla parte non porticata dell’acquedotto, Alexandra Gouveia Santos, Ana C. Gomes, Luís Miguel Costeira, Miguel Sanchez, Pedro Penalva, Pierre Ribeiro, Miguel Paixão, 2023 Bonjóia: recupero della memoria architettonica e riprogettazione dello spazio pubblico, schizzi di studio, Luís Miguel Costeira, 2023 Bonjóia: recupero della memoria architettonica e riprogettazione dello spazio pubblico, pianta con demolizioni e nuove costruzioni, Luís Miguel Costeira, 2023 Bonjóia: recupero della memoria architettonica e riprogettazione dello spazio pubblico, sezione trasversale e sezione longitudinale, Luís Miguel Costeira, 2023 Bonjóia: recupero della memoria architettonica e riprogettazione dello spazio pubblico, sezione trasversale e sezione longitudinale, Luís Miguel Costeira, 2023 Bonjóia: recupero della memoria architettonica e riprogettazione dello spazio pubblico, dettaglio dell’ipotesi di sistema costruttivo, Luís Miguel Costeira, 2023 Bonjóia: recupero della memoria architettonica e riprogettazione dello spazio pubblico, vista di progetto, Luís Miguel Costeira, 2023 -
Form is not enough
Luigiemanuele Amabile in conversation with Bernadette Krejs.
The architectural design studio is at a critical juncture. As the field of architecture confronts its role in ecological collapse and social inequity, traditional pedagogical approaches centred on form and individual authorship are increasingly being seen as insufficient. Bernadette Krejs of the Institute of Housing and Design at TU Wien reimagines the studio as a space of unlearning, where feminist, collective and more-than-human approaches destabilise architecture’s entrenched hierarchies. Through experimental formats that merge research, spatial practice, and political accountability, her work addresses a fundamental question: Can the studio become a site of refusal and transformation rather than replication?
LA: Architectural education often clings to traditional frameworks – form, composition, canonical knowledge – while contemporary crises demand new ways of thinking. In your work, you seem to confront this tension directly: How would you define the role of a design studio today? And how have you translated that vision into your teaching, particularly in addressing urgent ecological, social, and political dimensions of practice?
BK: I’m based in the Institute of Housing and Design, which is part of a large Architecture Faculty of the TU Wien. I teach design studios at both bachelor and master levels, but more recently mostly at master level. Last year, together with a colleague, we ran a studio focused on interrogating what a design studio should be, which topics we should work on, who’s empowered to teach, what becomes visible, what remains invisible. We asked: under what conditions does architectural knowledge transfer happen? The studio developed into a spatial practice. It wasn’t just theoretical – it culminated in an exhibition with actual spatial interventions. So I believe critical thinking is deeply tied to spatial practice. As for what should be addressed in a design studio today – well, the list is endless. Especially in today’s context of polycrisis and climate breakdown, our entire profession – and especially the building sector – is causing harm. We need a fundamental shift in both practice and education. If we used to understand architecture as adding something to the world, we now have to rethink resources, labour, and social relations. The design studio is one of the most important spaces we have in education to test and debate these questions. It’s not just about describing the world’s problems, like the humanities might, but about bringing that criticality into architectural practice itself – through drawings, models, texts, and spatial projects. We shouldn’t pretend to produce “solutions” in the traditional sense anymore. In a time of continuous transformation – rising energy costs, housing shortages, migration, inequality – our task isn’t to offer final answers but to explore multiple possibilities for different groups of people and more-than-human actors. A design studio should be a testing ground for alternatives. And of course, architecture still deals with form, but that’s only one part. We need to connect form to social, economic, ecological, and technological questions. That’s where things get complex – and interesting. I also think we need to break disciplinary boundaries. Last semester, we worked with texts by Paul B. Preciado. He writes about his own body, not about space, but the process of transformation he describes is exactly what we’re doing as architects: crossing thresholds. Preciado says transformation isn’t weakness – it’s power. That was a revelation to me.
LA: How do you then organize your design studios in practice? Do you have structured discussions or readings? How do you navigate between theory and project work?
BK: Yes, I think we need to expand our idea of what a studio is. It starts with references: which knowledge do we engage with? Which people do we quote? We’re still stuck in a Western, white, male, European canon. We try to introduce less established references – inviting scholars from inside and outside academia. This semester, for instance, we’re working with image-based AI tools to explore ideas of home. We also reflect on authorship and collaboration. One student worked on five different projects with unclear authorship – it wasn’t about individual ownership, but collective energy. It was incredibly powerful. Another key element is creating conditions for knowledge-sharing. Students already bring in a lot of knowledge, often ahead of our generation. But traditional academic structures (hierarchies, lecture halls, who gets to speak) make it hard to share. We try to change that. For example, we began the semester with students designing their own cushions – deciding how they wanted to sit in the space. Some ended up back on chairs, but starting from that gesture helped democratize the environment. We also created a feminist glossary – Claiming Spaces Queer-Feminist Glossary – to make sure everyone could understand and access the language being used. And yes, we ate together a lot. It helps shift the dynamic. Students also hosted sessions, and we wrote a code of studio conduct together, inspired by one from TU Munich. We agreed on shared values. We worked outside the university too – intervening in public housing spaces in Vienna. And we encouraged students to propose urgent topics. One explored trans-inclusive space, another mapped the environmental footprint of the design studio – materials, electricity, data. It was wide-ranging but grounded in real engagement.
LA: In your previous answer, you emphasized process. Instead, how do you approach form? What role does it play, especially in relation to your critical framework?
BK: Form is essential. Design is our core practice. Space surrounds everything we do – urban scale, landscape, housing. It’s always about form. But we can’t talk about form in isolation. I’m deeply rooted in housing, and form has to be discussed in connection with economics, affordability, social dynamics. There’s a great book by a Design Academy Eindhoven student called Who Can Afford to Be Critical? It asks: how do we take good ideas out of our academic bubble and into real-world conditions? How do we create joyful, generous housing for the 99%? I’m also part of a feminist collective called Claiming Spaces. For me, feminist design means spatial justice. It’s about who has access, whose needs are considered, and also how we integrate non-human actors – plants, light, noise. And joy matters too. I’m not advocating for minimal, cheap-but-bad spaces. Design should be generous, experimental, and joyful. We explored queer spatial practices, shared living models, reduced energy use, etc. I also believe we need to expand our vocabulary to include care, repair, solidarity – not just aesthetics.
LA: I was also thinking about the physicality of studio spaces, especially with regard to feminist theory and embodiment. How do you see the body in relation to the design process and learning environment?
BK: Excellent question. In architectural education, we’re often detached from the body – it’s all about the intellect. But knowledge is always situated. Donna Haraway writes that knowledge is partial and embodied, and we must make that situatedness transparent. For whom do we design? And who are we, as designers? Which worlds can I imagine – and which can’t I, because I’m not part of them? Reclaiming the body in design is powerful. We experience space bodily. That’s why joy, touch, and materiality matter. Modernism valued certain materials, shapes, colors. But what about knitting? That’s a spatial practice too. At the same time, it’s hard. These ideas weren’t part of my education either. We’re still figuring it out. Speaking from the body is still unpopular in architecture, but it holds unique knowledge. Unfortunately, our institutional spaces don’t support this much. There’s a lack of studio space at TU Wien. Students can’t easily work together unless they rent external studios – which raises issues of class and access. Finding a place to think, work, and be present is a political issue too.
LA: Do you see Austria – or Vienna specifically – approaching these questions differently compared to other places?
BK: I’d say I’m in a minority at my school. I have a bit of freedom in my postdoc position to shape my own studios. There’s good student engagement, and we’re part of international networks – from Harvard to ETHZ – but my approach isn’t mainstream. Still, there’s a growing feminist movement to rethink the profession. Charlotte Malterre-Barthes wrote a manifesto with 10 points: stop building, fix the schools, reform the office. As educators, we have a role in rethinking what and how we teach.
LA: Is there a minimum framework that you’re required to follow as a studio teacher?
BK: In the bachelor’s program, yes – it’s very regulated. But the master’s is much more open. Students choose among many studios. Personally, I’m focused on how we live together – from the planetary scale down to the home. The home is familiar to everyone, so it’s a good place to test ideas, even in experimental formats. Currently, we’re working with AI. I don’t know if it’s useful yet – sometimes the glitches are the most interesting part. But it’s an experiment, and the studio should allow room for failure. To me, research means being able to describe what you’re doing and make it accessible to others. That’s the goal: to find language and clarity even when working experimentally.
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La forma non è abbastanza
Luigiemanuele Amabile in conversazione con Bernadette Krejs.
Lo studio di progettazione architettonica è a un punto critico. Mentre il campo dell’architettura si confronta con il proprio ruolo nel collasso ecologico e nelle disuguaglianze sociali, gli approcci pedagogici tradizionali, centrati sulla forma e sull’autorialità individuale, sono sempre più percepiti come insufficienti. Bernadette Krejs dell’Istituto di Housing e Design della TU Wien reimmagina lo studio come uno spazio di dis-apprendimento, dove approcci femministi, collettivi e più-che-umani destabilizzano le gerarchie radicate dell’architettura. Attraverso formati sperimentali che fondono ricerca, pratica spaziale e responsabilità politica, il suo lavoro affronta una domanda fondamentale: lo studio può diventare un luogo di rifiuto e trasformazione, anziché di mera replica?
LA: L’educazione architettonica resta spesso legata a strutture tradizionali – forma, composizione, conoscenze canoniche – mentre le crisi contemporanee richiedono nuovi modi di pensare. Nel tuo lavoro, sembri confrontare direttamente questa tensione: come definiresti il ruolo di uno studio di progettazione oggi? E come hai tradotto questa visione nel tuo insegnamento, in particolare nell’affrontare le dimensioni ecologiche, sociali e politiche urgenti della pratica?
BK: Lavoro all’Institute of Housing and Design, che fa parte della grande facoltà di architettura della TU Wien. Insegno studi di progettazione sia a livello di bachelor che di master, ma più recentemente soprattutto a livello master. L’anno scorso, insieme a una collega, abbiamo condotto uno studio incentrato sull’interrogare cosa dovrebbe essere uno studio di progettazione, su quali temi dovremmo lavorare, chi ha il potere di insegnare, cosa diventa visibile, cosa rimane invisibile. Ci siamo chieste: in quali condizioni avviene il trasferimento di conoscenza architettonica? Lo studio si è trasformato in una pratica spaziale. Non era solo teorico – è culminato in una mostra con interventi spaziali reali. Quindi credo che il pensiero critico sia profondamente legato alla pratica spaziale. E per quanto riguarda ciò che dovrebbe essere affrontato in uno studio oggi – beh, l’elenco è infinito. Soprattutto nel contesto attuale di policrisi e collasso climatico, la nostra intera professione – e in particolare il settore edilizio – sta causando danni. Serve un cambiamento radicale nella pratica e nell’educazione. Se prima intendevamo l’architettura come un’aggiunta al mondo, ora dobbiamo ripensare risorse, lavoro e relazioni sociali. Lo studio di progettazione è uno degli spazi più importanti che abbiamo nell’educazione per testare e discutere queste questioni. Non si tratta solo di descrivere i problemi del mondo, come potrebbe fare l’ambito umanistico, ma di portare quella criticità nella pratica architettonica stessa – attraverso disegni, modelli, testi e progetti spaziali. Non dovremmo più fingere di produrre “soluzioni” nel senso tradizionale. In un’epoca di trasformazione continua – aumento dei costi energetici, carenza di alloggi, migrazioni, disuguaglianze – il nostro compito non è offrire risposte definitive, ma esplorare molteplici possibilità per diversi gruppi di persone e attori più-che-umani. Lo studio dovrebbe essere un terreno di sperimentazione per le alternative. E certo, l’architettura ha ancora a che fare con la forma, ma è solo una parte. Dobbiamo collegare la forma alle questioni sociali, economiche, ecologiche e tecnologiche. È lì che le cose si complicano – e diventano interessanti. Penso anche che dobbiamo superare i confini disciplinari. Lo scorso semestre abbiamo lavorato con testi di Paul B. Preciado. Scrive del proprio corpo, non dello spazio, ma il processo di trasformazione che descrive è esattamente ciò che facciamo come architetti: attraversare soglie. Preciado dice che la trasformazione non è debolezza – è potere. Per me è stata una rivelazione.
LA: Come organizzi allora concretamente i tuoi studi di progettazione? Ci sono discussioni strutturate o letture? Come ti muovi tra teoria e progetto?
BK: Sì, penso che dobbiamo ampliare la nostra idea di cosa sia uno studio. Tutto inizia dalle fonti: quali saperi attiviamo? Quali autori citiamo? Siamo ancora bloccati in un canone occidentale, bianco, maschile, europeo. Cerchiamo di introdurre riferimenti meno consolidati – invitando studiosi dentro e fuori dall’accademia. Questo semestre, ad esempio, stiamo lavorando con strumenti di intelligenza artificiale basati su immagini per esplorare l’idea di casa. Riflettiamo anche sull’autorialità e la collaborazione. Una studentessa ha lavorato su cinque progetti diversi con autorialità poco chiara – non si trattava di proprietà individuale, ma di energia collettiva. È stato molto potente. Un altro elemento chiave è creare le condizioni per la condivisione della conoscenza. Gli studenti portano già con sé molti saperi, spesso più aggiornati della nostra generazione. Ma le strutture accademiche tradizionali (gerarchie, aule, chi ha diritto di parola) rendono difficile condividerli. Cerchiamo di cambiare questo. Per esempio, abbiamo iniziato il semestre con gli studenti che disegnavano i propri cuscini – decidendo come volevano sedersi nello spazio. Alcuni sono finiti di nuovo sulle sedie, ma partire da quel gesto ha aiutato a democratizzare l’ambiente. Abbiamo anche creato un glossario femminista – il Claiming Spaces Queer-Feminist Glossary – per garantire a tutti l’accesso al linguaggio usato. E sì, abbiamo mangiato molto insieme. Aiuta a cambiare la dinamica. Anche gli studenti hanno condotto delle sessioni, e abbiamo scritto insieme un codice di condotta dello studio, ispirandoci a uno della TU Monaco. Abbiamo concordato dei valori condivisi. Abbiamo lavorato anche fuori dall’università – intervenendo in spazi di edilizia popolare a Vienna. E abbiamo incoraggiato gli studenti a proporre temi urgenti. Una studentessa ha esplorato lo spazio trans-inclusivo, un’altra ha mappato l’impronta ambientale dello studio – materiali, elettricità, dati. È stato molto vario, ma con un coinvolgimento reale.
LA: Nella tua risposta precedente hai sottolineato il processo. Come ti rapporti invece con la forma? Che ruolo ha, in relazione al tuo quadro critico?
BK: La forma è essenziale. La progettazione è la nostra pratica centrale. Lo spazio ci circonda sempre – scala urbana, paesaggio, abitazione. È sempre questione di forma. Ma non possiamo parlare di forma in isolamento. Io sono profondamente legata al tema dell’abitare, e la forma va discussa in relazione all’economia, all’accessibilità, alle dinamiche sociali. C’è un bel libro di uno studente della Design Academy Eindhoven che si chiama Who Can Afford to Be Critical? Si chiede: come possiamo portare le buone idee fuori dalla bolla accademica e dentro le condizioni del mondo reale? Come possiamo creare abitazioni gioiose e generose per il 99%? Faccio anche parte di un collettivo femminista che si chiama Claiming Spaces. Per me il design femminista significa giustizia spaziale. Si tratta di chi ha accesso, di cui bisogni vengono considerati, e anche di come integriamo attori non-umani – piante, luce, suoni. E la gioia è importante. Non sto sostenendo spazi minimalisti, economici ma scadenti. Il design dovrebbe essere generoso, sperimentale e gioioso. Abbiamo esplorato pratiche spaziali queer, modelli di coabitazione, riduzione dei consumi energetici, ecc. Credo anche che dobbiamo ampliare il nostro vocabolario per includere cura, riparazione, solidarietà – non solo estetica.
LA: Pensavo anche alla fisicità degli spazi dello studio, soprattutto in relazione alla teoria femminista e all’embodiment. Come vedi il corpo in relazione al processo progettuale e all’ambiente di apprendimento?
BK: Bella domanda. Nell’educazione architettonica siamo spesso distaccati dal corpo – si privilegia l’intelletto. Ma il sapere è sempre situato. Donna Haraway scrive che la conoscenza è parziale e incarnata, e che dobbiamo rendere questa situatezza trasparente. Per chi progettiamo? E chi siamo noi, come progettisti? Quali mondi posso immaginare – e quali non posso, perché non ne faccio parte? Reclamare il corpo nella progettazione è potente. Lo spazio lo viviamo con il corpo. Per questo gioia, tatto e materialità sono importanti. Il Modernismo valorizzava certi materiali, forme, colori. Ma che dire del lavoro a maglia? Anche quella è una pratica spaziale. Allo stesso tempo, è difficile. Neanche la mia formazione includeva questi temi. Li stiamo ancora esplorando. Parlare dal corpo è ancora impopolare in architettura, ma racchiude un sapere unico. Purtroppo, gli spazi istituzionali non lo supportano molto. Alla TU Wien c’è poca disponibilità di spazi di studio. Gli studenti non possono facilmente lavorare insieme a meno che non affittino studi esterni – il che solleva questioni di classe e accesso. Trovare uno spazio per pensare, lavorare ed essere presenti è anche una questione politica.
LA: Vedi l’Austria – o Vienna in particolare – affrontare queste domande in modo diverso rispetto ad altri luoghi?
BK: Direi che sono in minoranza nella mia scuola. Ho un po’ di libertà nella mia posizione post-doc per strutturare i miei studi. C’è un buon coinvolgimento da parte degli studenti, e facciamo parte di reti internazionali – da Harvard a ETHZ – ma il mio approccio non è quello dominante. Tuttavia, c’è un movimento femminista crescente che vuole ripensare la professione. Charlotte Malterre-Barthes ha scritto un manifesto con 10 punti: smettere di costruire, riformare le scuole, cambiare gli studi. Come docenti, abbiamo un ruolo nel ripensare cosa e come insegniamo.
LA: Hai dei vincoli minimi da seguire come docente di studio?
BK: Nel programma di bachelor, sì – è molto regolato. Ma il master è molto più aperto. Gli studenti scelgono tra molti studi. Personalmente, mi concentro su come viviamo insieme – dalla scala planetaria fino alla casa. La casa è familiare a tutti, quindi è un buon punto di partenza per testare idee, anche in formati sperimentali. Al momento stiamo lavorando con l’IA. Non so ancora se sia utile – a volte gli errori sono la parte più interessante. Ma è un esperimento, e lo studio dovrebbe lasciare spazio all’errore. Per me fare ricerca significa saper descrivere quello che si fa e renderlo accessibile agli altri. Questo è l’obiettivo: trovare un linguaggio e una chiarezza anche lavorando in modo sperimentale.
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Luigiemanuele Amabile – Architect and PhD, research fellow of the project DT2 (UdR Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Bernadette Krejs – Architect and researcherm, research area of housing and design (Forschungsbereich Wohnbau und Entwerfen), Institut für Architektur und Entwerfen, TU Wien.Poster of the Design Studio, image: Palace of Un/Learning Collective Dinner, 2023, Photo: Palace of Un/Learning Learning environment out of the institution, Claiming Gemeindebau, 2023, Photo: Palace of Un/learning Camping and sharing knowledge at Kafkarna, UMPRUM Prague, 2023, Photo: Palace of Un/Learning Radical Cute Revue of Un/Learning, Technical University Vienna, 2023, Photo: Paul Sebesta Designing collectively, Technical University Vienna, 2023, Photo: Paul Sebesta Camping and sharing knowledge at Kafkarna, UMPRUM Prague, 2023, Photo: Palace of Un/Learning Learning environment out of the institution, Claiming Gemeindebau, 2023, Photo: Palace of Un/learning -
Architecture within uncertainty
Luigiemanuele Amabile in conversation with Christoph Grafe.
LA: Which challenges in our built and natural environments should today’s architectural design studios engage with?
CG: Reuse and adaptation of buildings – as cultural, aesthetic, and technical questions; the needs and preferences of a culturally diverse society; regional appropriateness; the value of labour in building, and the value of the workers.
LA: How should a design studio to be structured, and what methods or tools best support its aims?
CG: The studio should strike a balance between giving students enough freedom in their work and offering them a framework that helps them achieve both their personal goals and those of the studio as a whole. The pedagogical structure should be simple and transparent, yet adaptable as the project unfolds.
LA: In what ways does the quality of the physical studio space shape the learning experience, and why does this matter?
CG: The physical space is of great importance. It should be airy, not too warm, and well-ventilated – ideally with operable windows and generous natural light. Crucially, it must not feel too perfect; it should have the character of a laboratory or even an industrial workshop.
LA: Is architecture – as “knowledge of form” – still a self-contained discipline?
CG: Yes. Architecture is not only about the knowledge of form, but formal-aesthetic questions remain essential and at its core. Most buildings fall out of favour not because of structural or functional failure, but because they cease to be liked. In spaces that do not look or feel right, people feel miserable – and may act accordingly.
LA: What legacies do the 20th-century schools of architectural thought leave us?
CG: That’s a very large question, given the multitude of schools of thought. Generally, the most valuable traditions are those that treat students seriously and grant them freedom. A school should transcend mere aesthetic preference; it must articulate a clear, if implicit, cultural stance.
LA: As architectural education increasingly intersects with disciplines like the hard sciences, anthropology, or art, what unique contribution can design pedagogy make to these hybrid practices?
CG: Architectural design is a vital mode of knowledge generation with its own epistemological traditions. The design process moves forward despite incomplete information, embracing uncertainty. This approach can enrich disciplines that traditionally depend on linear, fully-known processes of inquiry.
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Architettura nell’incertezza
Luigiemanuele Amabile in conversazione con Christoph Grafe.
LA: Quali sono i temi più urgenti che un laboratorio di progettazione architettonica dovrebbe affrontare oggi?
CG: Il riuso e la trasformazione degli edifici intercettano diverse questioni: culturali, estetiche e tecniche; i bisogni e le aspirazioni di una società culturalmente diversificata; la ricerca dell’appropriatezza all’interno di un contesto regionale; il valore del lavoro nell’industria delle costruzioni e il riconoscimento del lavoro degli architetti.
LA: Come dovrebbe essere strutturato un laboratorio di progettazione e con quali metodi e strumenti?
CG: Il laboratorio deve trovare un equilibrio tra il concedere agli studenti una libertà di movimento nel loro lavoro e offrigli di un quadro di riferimento che li aiuti a raggiungere sia i loro obiettivi come individui e quelli dell’intero design studio inteso come collettività. La struttura pedagogica deve essere organizzata in maniera chiara e trasparente, ma al contempo deve essere in grado di adattarsi ai diversi momenti del progetto man mano nella sua evoluzione.
LA: Quanto conta la qualità dello spazio fisico del laboratorio nell’esperienza di apprendimento?
CG: Lo spazio fisico è di grande importanza. Dovrebbe essere arioso, non troppo caldo e ben ventilato – idealmente con finestre apribili e abbondante luce naturale. Fondamentale, inoltre, che non risulti troppo “perfetto”: dovrebbe avere il carattere di un laboratorio o persino di una officina industriale.
LA: L’architettura – intesa come scienza della forma – è ancora una disciplina autonoma?
CG: Sì. Ma l’architettura non riguarda solo la conoscenza delle questioni formali ed estetiche, sebbene esse restino essenziali e rappresentino il suo nucleo. La maggior parte degli edifici non diventa obsoleta a causa di problemi strutturali o di funzionalità, ma piuttosto perché non incontra più i gusti delle persone. Negli spazi che non appaiono adeguati o che non fanno sentire “a posto”, le persone provano disagio. E possono comportarsi di conseguenza.
LA: Cosa ereditiamo dai maestri e dalle scuole che ci hanno preceduto?
CG: È una domanda molto ampia, dato l’ampio panorama di scuole di pensiero da cui discendiamo. In generale, le tradizioni più preziose e che hanno lasciato tracce più fertili sono quelle che hanno messo al centro la libertà degli studenti e che hanno considerato il loro ruolo con serietà. Una scuola dovrebbe trascendere l’utilizzo del gusto e della mera preferenza estetica come criterio di giudizio e articolare una posizione culturale chiara, anche se implicita.
LA: L’educazione al progetto di architettura si intreccia sempre più con discipline come le scienze dure, l’antropologia o l’arte. Quale contributo può offrire la pedagogia del progetto a queste pratiche ibride?
CG: Il progetto architettonico è un processo che genera conoscenza ed è caratterizzato da metodologie epistemologiche distintive. Il processo di progetto, a differenza di altri casi, prosegue nonostante la mancanza di informazioni e dati completi ed esaustivi, accogliendo l’incertezza come un fattore intrinseco. Tale approccio può contribuire all’arricchimento di discipline che tradizionalmente dipendono da processi di indagine lineari e strutturati.
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Luigiemanuele Amabile – Architect and PhD, research fellow of the project DT2 (UdR Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Christoph Grafe – Architect, professor of Architectural History and Theory, University of Wuppertal -
Questioning typologies, or the hybrid future of architectural design
Luigiemanuele Amabile in conversation with Andreas Lechner.
LA: What challenges related to the built and natural environment should an architectural design studio confront today?
AL: I consider myself a hybrid practitioner – someone who deliberately navigates and often blurs the boundaries between theory, practice, and pedagogy. Yet no matter how broad the investigative field, the architectural project itself remains central: it is the primary medium through which we articulate and test our ideas. I am guided by a spirit of bricolage, integrating diverse influences – from historical insights to site-specific observations – into conceptual frameworks that have both analytical depth and practical relevance. A design studio, therefore, should try to tackle real-world problems, respond to ecological imperatives, and keep the discourse nevertheless open to myriad perspectives, evolving typologies, and the complexities of daily life. In today’s climate, architecture’s potential for critique, care, and repair comes sharply into focus. We operate in a techno-cultural industry saturated with commodified images and reductive ideologies, where aesthetic values risk being eroded by mass reproduction and commercial pressures. By rethinking materials, forms, and spatial relationships, ie. by quite strictly referring to what architecture does at best, we can resist such erosion and uphold our responsibility to shape a built environment that respects – and even celebrates – the natural environment. This entails a dual imperative: to work on the beauty of the ecological turn and foster social engagement and innovation within our communities.
LA: How can a design studio be structured, and which tools are most effective to accomplish these objectives?
AL: I advocate for a design studio structure that is simultaneously critical and poetic – one that frames a challenging yet real-world brief. Such a studio fosters experimentation, prompting students to question typological norms, cultural assumptions, and morphological conventions. In practice, this outlook applies to both established urban centers and marginalized peripheries. All harbor significant “grey energies,” be they tangible, infrastructural, or cultural resources that can be revitalized by extending life cycles rather than starting from scratch. The concept of “continual building” encourages the reuse of existing infrastructures and materials, transforming underutilized buildings into assets instead of discarding them. This approach not only addresses densification, infill, and urban regeneration but aligns with the ecological imperative to build upon and adapt what already exists. In terms of methodology, the studio should integrate diverse tools – ranging from hands-on modeling and digital parametric design to on-site research and collaboration with local stakeholders – always oriented toward sustainable, context-sensitive, and imaginative outcomes.
LA: To what extent does the physical setting of the design studio shape the educational experience, and for what reasons?
AL: The physical environment of a design studio profoundly shapes both individual projects and the collective dynamic. A shared studio space encourages peer-to-peer discussion, constructive critique, and a healthy sense of competition – often yielding more innovative and refined projects than those developed in isolation. While individual work at home can certainly produce high-quality results, collective studio culture allows educators to observe and guide student engagement more directly. It fosters an atmosphere of immersion, focus, and mutual inspiration. Ultimately, intrinsic motivation remains pivotal for architectural learning; however, the shared space can galvanize creativity and allow students to learn from each other’s processes, successes, and missteps.
LA: How does your institution’s pedagogical approach differentiate itself within Austria’s architectural education landscape? Would you identify a distinct design methodology emerging from your school’s historical legacy, cultural context, student demographics, or geographic position?
AL: In Austria, many institutions feature a blend of dedicated studio spaces, self-administered student studios, and privately organized collectives. TU Graz follows this general pattern but also has a unique historical narrative. We have a notable heritage of experimental, proto-deconstructivist architectures from the late 1970s and 1980s, the ‘Grazer Schule’ or Graz school – work that remains largely under-explored today. This lineage offers a powerful reservoir of references, challenging students and faculty to rediscover and critically re-evaluate past innovations rather than blindly follow current trends, but this revival is hardly fashionable yet and not really in sight.
LA: Can the study of architecture as “knowledge of form” still be considered a discipline in its own right?
AL: Yes, absolutely. Architectural engagement is, at its core, an art and science of building that is inescapably historical. It is bound up with collective memory – both societal and disciplinary. Each new intervention contributes to a continuum of architectural expression, making historical reflection indispensable. Robert Venturi’s Complexity and Contradiction in Architecture shows how historical precedents inspire novel expressions – history in architecture. Colin Rowe’s The Mathematics of the Ideal Villa demonstrates how classical compositional principles can be reinterpreted in contemporary design – history for architecture. And Manfredo Tafuri’s Theories and History of Architecture interrogates the entanglement of architecture with power structures, cautioning against self-referential formalism. Together, these viewpoints remind us that architecture, despite – and often because of – its historical layering and intricacies, must remain engaged with the real-world challenges of human and more-than-human life.
LA: What do we inherit from the schools of thought that shaped the disciplinary teaching of architecture in the last century? Are they still relevant today in such a different and profoundly changed context?
AL: From the last century’s architectural schools, we inherit various stances on form, theory, and social responsibility – ranging from Modernism’s faith in rational structures to Postmodernism’s embrace of complexity and contradiction. Today’s context may have changed dramatically, especially under the pressures of global capitalism and pervasive digital culture and the pressures of the Anthropocene, but these earlier frameworks still offer potent lessons. They remind us that while architecture inevitably participates in larger economic and political systems, it retains the power to question, care, and repair. By re-examining the past, we see how architects can challenge the status quo or, at least, create the conditions for thoughtful experimentation. Rather than merely replicating historical styles or formal gestures, we learn to translate those insights into contemporary strategies that integrate innovation, social responsibility, and ecological mindfulness – beautifully at best.
LA: How significant is the student’s freedom to self-govern their own learning process in architecture in pedagogical terms?
AL: Studying architecture in the 1990ies very much feelt like an immersion in quite contrasting personalities, teaching methods, and conceptual frameworks. This can be disorienting but also illuminating. Mastery is never fully achieved – it is always in flux. This uncertainty can be creatively productive, prompting students to take ownership of their projects in a manner that fosters independence and depth of inquiry. However, to be effective, this freedom today clearly demands structure. Architecture’s myriad complexities must be broken into manageable tasks suited to each level of study. Educators strike a balance: providing guidance while leaving room for self-directed research and development.
LA: Architectural education now shapes not only architects as practitioners and designers, but also other spatial practices that move across borders with other disciplines, such as the hard sciences, anthropology or art. What role do you think architectural design education, as a discipline in its own right, with its tools and codes, can play in shaping these hybrid figures? And what is their specificity?
AL: I see architectural design education as a unique crucible where theory, creative practice, and material experimentation intersect. At TU Graz, we encourage students to move beyond disciplinary boundaries – collaborating or at least discussing and exchanging with engineers, scientists, anthropologists, and artists – to tackle the pressing environmental and social challenges of our time. But in essence, architecture is the art and science of building, even though “building” goes far beyond physical construction. It includes shaping narratives, translating cultural identities into space, and orchestrating civic life. As architects we are the “hybrid figures” questioning human behavior, ecological relationships, or technical innovations – but our specificity and that of architectural design education lies in spatial thinking. How to conceptualize and model environments, how to visualize complex relationships among form, function, and context, and how to integrate social, ecological, and aesthetic dimensions into a cohesive vision and taking over the responsibility for turning as much as possible of that into future realty is genuinely at the center of the profession of architecture. This integrated design approach, which merges rigorous analytical frameworks with poetic imagination, is precisely what architecture can offer also to those branching out into other domains. It fosters synthesis: bridging hard science with cultural insight, bridging technology with human-centric values. Even as these practitioners operate at the edges of conventional architecture, they retain a designer’s capacity to see the big picture, to frame spatial problems, and to propose interventions that are simultaneously creative, critical, and constructive. That ability to think and act spatially – while continuously questioning how forms, materials, and spaces affect both people and the planet – is what grounds them in architecture’s disciplinary DNA, even as they extend its reach in new and unexpected directions.
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Mettere in discussione le tipologie, ovvero il futuro ibrido della progettazione architettonica
Luigiemanuele Amabile in conversazione con Andreas Lechner.
LA: Quali tematiche relative all’ambiente costruito e naturale dovrebbe affrontare oggi un laboratorio di progettazione architettonica?
AL: Mi considero un professionista ibrido, una figura che deliberatamente naviga tra e spesso attraversa i confini tra teoria, pratica del progetto e didattica. Tuttavia, per quanto ampio possa essere il campo d’indagine, il progetto di architettura resta centrale: è il mezzo principale attraverso cui formuliamo e mettiamo alla prova le nostre idee. Il mio approccio è caratterizzato da uno spirito da bricoleur: credo sia necessario integrare influenze eterogenee, che vanno dai riferimenti storici alle analisi del contesto, e collocarle tra argini concettuali che abbiano una profondità analitica ma allo stesso tempo una rilevanza pratica. Un laboratorio di progettazione dovrebbe quindi cercare di affrontare problemi reali, rispondere all’imperativo dell’emergenza climatica e, allo stesso tempo, mantenere un discorso aperto a molteplici prospettive che ragionino su tipologie architettoniche in evoluzione e sulla complessità della vita quotidiana.
Nel contesto attuale, il potenziale dell’architettura in termini di critica dell’esistente, della sua cura e del suo rinnovamento si staglia con forza. Operiamo in un’industria tecnica e culturale satura di immagini mercificate e ideologie riduttive, in cui i valori estetici rischiano di essere erosi dalla riproduzione di massa e dalle pressioni del mercato. Ripensando materiali, forme e relazioni spaziali – ovvero attenendoci precisamente al compito dell’architettura – possiamo resistere a tale erosione e adempiere alla nostra responsabilità di plasmare un ambiente costruito che rispetti e anzi supporti l’ambiente naturale. Ciò implica un duplice ordine di priorità: lavorare sulla bellezza derivante dalla transizione ecologica e promuovere il coinvolgimento sociale e l’innovazione all’interno delle nostre comunità.
LA: Come dovrebbe essere strutturato un laboratorio di progettazione e quali strumenti dovrebbe utilizzare per raggiungere gli obiettivi che si prefigge?
AL: Immagino una struttura di laboratorio di progettazione che sia al tempo stesso critica e poetica, capace di strutturare un brief che sia impegnativo ma radicato nella realtà. Un laboratorio di questo tipo deve basarsi sulla sperimentazione, spingendo gli studenti a mettere in questioni consuetudini tipologiche, presupposti culturali e convenzioni formali. Nella pratica, questa prospettiva si applica sia ai centri urbani consolidati sia alle periferie al margine. Entrambi gli ambiti custodiscono significative “energie grigie”, siano esse risorse tangibili, infrastrutture o risorse culturali, che possono essere rivitalizzate prolungandone il ciclo di vita anziché essere oggetto di sostituzione edilizia.
In questo contesto, il concetto di “costruzione continua” incoraggia il riuso di infrastrutture e materiali esistenti, trasformando edifici ad oggi sottoutilizzati in risorse anziché scarti. Questo approccio non solo affronta temi come la densificazione, i cambi di destinazione d’uso e la rigenerazione urbana, ma si allinea anche all’obbligo etico di intervenire su ciò che esiste già, adattandolo. Dal punto di vista metodologico, il laboratorio dovrebbe integrare strumenti diversificati, dai modelli fisici al disegno digitale e al parametrico, dalla ricerca sul campo alla collaborazione con i portatori di interesse locali, mantenendo sempre un orientamento verso risultati sostenibili, sensibili al contesto ma anche in grado di produrre immagini nuove.
LA: Quanto influisce lo spazio fisico in cui si svolge lo studio di progettazione sull’esperienza pedagogica, e perché?
AL: L’ambiente fisico di un laboratorio di progettazione influenza profondamente sia i singoli progetti che la dinamica collettiva dello stare insieme. Uno spazio condiviso favorisce il confronto tra pari, la critica costruttiva e una sana competizione, producendo spesso esiti più innovativi e raffinati rispetto a esiti sviluppati lavorando da soli. Sebbene il lavoro individuale a casa possa generare risultati di qualità, la cultura del laboratorio consente ai docenti di osservare e guidare più direttamente l’impegno degli studenti. Si genera un’atmosfera di immersione, concentrazione e reciproco supporto. In definitiva, la motivazione personale resta fondamentale nell’apprendimento dell’architettura; tuttavia, lo spazio collettivo può stimolare la creatività e permettere agli studenti di imparare dai rispettivi processi, successi ed errori.
LA: In che modo l’approccio pedagogico della sua scuola si distingue nel panorama dell’insegnamento dell’architettura in Austria? Riconoscerebbe una metodologia progettuale specifica che emerge dalla tradizione storica, dal contesto culturale, dal profilo degli studenti o dalla posizione geografica della sua scuola?
AL: Le scuole di architettura austriache combinano tipicamente spazi di studio formalizzati con ambienti di lavoro autogestiti dagli studenti e collettivi indipendenti. Sebbene la TU Graz segua questo modello, essa presenta una storia specifica. La nostra istituzione conserva l’eredità della Grazer Schule degli anni ‘70-’80, un movimento di architettura sperimentale e proto-decostruttivista che ad oggi non è ancora stato particolarmente approfondito dalla critica. Questo patrimonio offre un ricco repertorio di idee e concetti che incoraggia studenti e docenti a rielaborare criticamente le innovazioni del passato anziché adottare dogmaticamente le tendenze contemporanee. Tuttavia, questa rivalutazione rimane una scelta non convenzionale, non ancora integrata nel discorso architettonico dominante.
LA: Lo studio dell’architettura come “conoscenza della forma” può ancora considerarsi una disciplina autonoma?
AL: Sì, certamente. L’architettura, nel suo nucleo essenziale, è un’arte e una scienza del costruire intrinsecamente storica. È legata alla memoria collettiva, sia per il suo ruolo nella società che nel suo specifico disciplinare. Ogni nuovo intervento prende parte al continuum storico dell’espressione architettonica e rende la riflessione sul passato indispensabile. Complexity and Contradiction in Architecture di Robert Venturi mostra come i precedenti storici possano ispirare nuove modalità espressive – la storia nell’architettura. The Mathematics of the Ideal Villa di Colin Rowe dimostra come principi compositivi classici possano essere reinterpretati nel progetto contemporaneo: la storia per l’architettura. Teorie e storia dell’architettura di Manfredo Tafuri, invece, si concentra sull’intersecarsi di architettura e strutture di potere, mettendo in guardia contro il formalismo autoreferenziale. Insieme, queste prospettive ci ricordano che, nonostante e spesso proprio a causa delle sue stratificazioni e complessità storiche, l’architettura deve impegnarsi con le sfide reali della vita umana e non umana.
LA: Cosa ci lasciano in eredità le scuole di pensiero che hanno plasmato l’insegnamento disciplinare dell’architettura nel secolo scorso? Sono ancora rilevanti oggi in un contesto così radicalmente mutato?
AL: Dal Novecento ereditiamo approcci alla forma, alla teoria e alla responsabilità sociale dell’architetto piuttosto diversi: dalla fiducia modernista nella razionalità all’accettazione della complessità e della contraddizione del Postmodern. Anche se il contesto attuale è profondamente cambiato, segnato dal capitalismo globale, dalla cultura digitale e dalle urgenze dell’Antropocene, queste teorie restano una fonte di insegnamenti cruciali. Ci ricordano che, pur essendo parte di sistemi economici e politici più ampi, l’architettura conserva la capacità di interrogare, prendersi cura e riparare. Rileggere il passato ci mostra come gli architetti abbiano sfidato lo status quo o creato le condizioni per una sperimentazione consapevole. Piuttosto che limitarsi a replicare stili o gesti formali, è fondamentale tradurre queste intuizioni in strategie contemporanee che integrino innovazione, responsabilità sociale e attenzione agli aspetti ecologici, con esiti che, nel migliore dei casi, potranno anche essere belli.
LA: In termini pedagogici, quanto è significativa la libertà dello studente di autogestire il proprio processo di apprendimento in architettura?
AL: Studiare architettura negli anni Novanta significava essere influenzati da personalità, metodi d’insegnamento e concetti fortemente contrastanti. Una situazione potenzialmente disorientante, ma che poteva anche rivelarsi illuminante. In questo processo, la padronanza della disciplina non è mai pienamente raggiunta, ma è in costante divenire. Questa incertezza può rivelarsi produttiva da un punto di vista creativo e spingere gli studenti ad assumersi la responsabilità dei propri progetti tale da sviluppare una certa indipendenza e profondità di ricerca. Tuttavia, affinché tale libertà sia efficace, oggi è richiesto di strutturarla molto precisamente. Le innumerevoli complessità dell’architettura devono essere scomposte in compiti gestibili, adeguati a ciascun livello di formazione. Il ruolo dei docenti è trovare un equilibrio: da una parte, offrire orientamento e, dall’altra, lasciare spazio alla ricerca e allo sviluppo autonomi.
LA: Oggi la formazione architettonica non forma solo architetti in senso tradizionale, ma anche figure ibride che operano al confine con altre discipline, dalle scienze dure all’antropologia o all’arte. Quale ruolo può avere la didattica del progetto architettonico, con i suoi strumenti e codici specifici, nel formare queste figure? E in cosa consistono le loro peculiarità?
AL: Sono convinto che l’insegnamento del progetto rappresenti un crogiolo unico in cui teoria, pratica creativa e sperimentazione materiale convergono. Alla TU Graz spingiamo gli studenti a superare i confini disciplinari, collaborando o almeno confrontandosi con ingegneri, scienziati, antropologi e artisti, per affrontare le urgenti sfide ambientali e sociali del nostro tempo. In sostanza, l’architettura permane come arte e scienza della costruzione, anche se il concetto di “costruire” va ben oltre la sola edificazione: include produrre narrazioni, tradurre identità culturali in spazio e orchestrare la vita civica. Noi architetti siamo figure ibride per definizione e il nostro lavoro consiste nell’interrogare il comportamento umano, le relazioni ecologiche o le innovazioni tecniche, ma la specificità della nostra formazione risiede nel pensiero spazializzato. Concettualizzare e modellare ambienti, visualizzare relazioni complesse tra forma, funzione e contesto, tenere insieme dimensioni sociali, ecologiche ed estetiche in una visione coerente: questo è il cuore del nostro mestiere. Questo approccio progettuale integrato, che fonde rigore analitico e immaginazione poetica, è ciò che l’architettura può offrire anche a chi si muove verso altri campi. Promuove una sintesi che unisce scienze esatte e sensibilità culturale, tecnologia e valori umanistici. Anche operando ai margini della disciplina tradizionale, tali figure ibride conservano la capacità tipica del progettista: osservare il quadro generale, inquadrare problemi spaziali e proporre interventi insieme creativi, critici e costruttivi. Quali sono le loro peculiarità? Questa attitudine a pensare e agire spazialmente e a interrogare continuamente come forme, materiali e spazi influenzano sia le persone che il pianeta, costituisce il DNA disciplinare dell’architettura e si manifesta anche quando viene applicato in direzioni nuove e inaspettate._______________________________________________________________________________________________
Luigiemanuele Amabile – Architect and PhD, research fellow of the project DT2 (UdR Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Andreas Lechner – Associate Professor, Institute of Design and Building Typology, Graz University of TechnologyAdaption and Extension of a Commercial Building in Greater Graz, Austria, Studio Andreas Lechner (2021-23) Page spreads from Andreas Lechner’s book Thinking Design – Blueprint for an Architecture of Typology, including the book cover and back, an overview of the three main topics as well as the tableau of 144 projects, each comprising 12 projects in various typologies such as theatre, museum, library, state, office, leisure, religion, retail, factory, education, surveillance, and hospital, 2021. Page spreads from the additional booklet “Appendix – Counterintuitive Typologies” with extracts from twelve supervised master’s theses in Thinking Design – Blueprint for an Architecture of Typology, 2021. What will be the monuments of the 21st century?
(featuring Robert Venturi, “I am a Monument”, ca. 1968. Source: Venturi, Scott Brown and Associates, Inc., Philadelphia, Jože Plečnik’s The Church of the Most Sacred Heart of Our Lord, Prague, 1929-1932, Njiric & Njiric Arhitecti, Baumaxx Hypermarket (Obi), Maribor, 1997 and PKMN Architectures, I AM Recycled, 2014 from www.archdaily.com/519078/i-am-recycled-pkmn-architectures).Existing Retail park in Marchtrenk, Austria from research project CBT – Counterintuitive Building Types, 2022. Master Studio “Mixed-Use Multi-Form” at TU Graz 2023, Adaption and Infill Project Marchtrenk, Austria by Matthias Guger and Mihael Vecchiet.
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Precision and experimentation in the design studio
Luigiemanuele Amabile in conversation with Mikael Bergquist
LA: What issues in the built and natural environment should an architectural design studio address today?
MB: Architectural education needs to address many questions. Social: How should we live together?; questions about technical issues and material; sustainability and adoptability; how to work with the existing. We must also constantly address the key questions and the secret knowledge of our profession like scale, how to make a good plan, what is the right size of a window? How do you move through an apartment?
LA: How should a design studio be organized and what tools should it use to achieve these goals?
MB: Not too many students but not too few either. Ideal is at max. twenty students. Then you have a group that works well together and can learn from each other. We always let the students work in pairs. We find it really helpful for the students and beneficial for their work and the process.
LA: How much does the physical space in which the design studio takes place influence the pedagogical experience, and why?
MB: I think it is crucial to have a dedicated space for the studio. A physical space where you can work and keep models and materials. A place that the studio adopts and becomes part of the forming of a culture.
LA: Can the study of architecture as “knowledge of form” still be considered a discipline in its own right?
MB: I think all education needs to relate to reality in some way. That does not mean that students should try to simulate reality altogether. The “knowledge of form” can be part of the education but needs to be informed be other knowledge as well.
LA: What do we inherit from the schools of thought that shaped the disciplinary teaching of architecture in the last century? Are they still relevant today in such a different and profoundly changed context?
MB: The certainty and well-developed method of modernism and its later evolution are not relevant ways of working today but you still need some guidelines and a method when working. We strive for an experimental, open method that nevertheless is rigorous and precise in certain aspects.
LA: How significant is the student’s freedom to self-govern their own learning process in architecture in pedagogical terms?
MB: I think it is necessary to give a quite strict framework for the students. To give explicate requirements for what material to produce (drawings, models, images and so on). Then it is also crucial to let go of the students so they can feel a certain freedom and be able to develop their own language and ways of working.
LA: Architectural education now shapes not only architects as practitioners and designers, but also other spatial practices that move across borders with other disciplines, such as the hard sciences, anthropology or art. What role do you think architectural design education, as a discipline in its own right, with its tools and codes, can play in shaping these hybrid figures? And what is their specificity?
MB: I am sure a lot will happen in this field in the coming years. Nevertheless, I think it is crucial that we still treasure the unique competence of architects when it comes to measurements, height of spaces, organization and slowing plan and section. There is no other discipline that has this knowledge that architects have. On the other hand, we must also be opened to new fields and adapt to a changing society. Also, when it comes to question of technical aspects such as building material and climate. There are many new disciplines that borders on architecture where we need to negotiate and still claim our own knowledge and position as specialists.
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Precisione e sperimentazione nel progetto del laboratorio
LA: Quali questioni relative al contesto naturale e all’ambiente costruito vanno affrontate in un laboratorio di progettazione architettonica oggi?
MB: L’insegnamento dell’architettura si trova ad affrontare una molteplicità di questioni. In ambito sociale, la questione fondamentale è: come possiamo e vogliamo vivere insieme? Tuttavia, è necessario evidenziare anche problematiche di natura tecnica e le questioni legate ai materiali, nonché legate alla sostenibilità e al riuso, e al rapporto con il patrimonio costruito esistente. Inoltre, è fondamentale interrogarsi costantemente sui principi fondamentali e sul sapere tacito interno alla nostra disciplina, come il saper gestire le scale di progetto, la qualità del disegno architettonico, saper scegliere le dimensioni appropriate di una finestra o saper gestire le modalità di movimento all’interno di una casa.
LA: Qual è l’aspetto che considera essenziale per la buona riuscita di un laboratorio di progettazione architettonica? Quali strumenti andrebbero impiegati per raggiungere gli obiettivi prefissati all’inizio?
MB: Trovo importante gestire la comunità di studenti all’interno del laboratorio. Ad esempio, gli studenti dovranno essere né troppi né troppo pochi. Il numero ottimale per corso si aggira intorno alle venti unità. Tale dimensione consente l’instaurarsi di una dinamica collaborativa efficace, nella quale gli studenti possano apprendere l’uno dall’altro, reciprocamente. L’approccio didattico che propongo incoraggia il lavoro di coppia. Credo sia una modalità di lavoro particolarmente vantaggiosa per gli studenti, apportando benefici tangibili sia al progetto che al processo di apprendimento.
LA: In che misura lo spazio fisico in cui si svolge il laboratorio influenza l’esperienza pedagogica e per quali motivi?
MB: Ritengo che sia fondamentale disporre di uno spazio dedicato esclusivamente al laboratorio. Un ambiente fisico destinato alla progettazione, alla conservazione di modelli fisici e di campioni di materiali. Uno spazio che viene progressivamente abitato e che contribuisce alla formazione di una cultura della cura e del progetto.
LA: È ancora possibile intendere l’architettura come disciplina autonoma in un mondo in cui gli ambiti del sapere sono strettamente collegati e i cui confini stanno progressivamente scomparendo?
MB: Ritengo che ogni forma di apprendimento debba mantenere un rapporto, anche indiretto, con la realtà. Tale affermazione non implica che gli studenti di architettura debbano semplicemente imitarla o simularla. La conoscenza della forma architettonica può certamente costituire una componente fondamentale dell’insegnamento, ma deve essere integrata da altri saperi.
LA: Cosa ereditiamo scuole di pensiero che hanno contribuito a strutturare l’insegnamento disciplinare dell’architettura nel secolo scorso? Tali elementi conservano ancora la loro rilevanza nell’attuale contesto, caratterizzato da profonde trasformazioni?
MB: La sicurezza nella metodologia e l’apparato teorico ben strutturato del modernismo e delle sue evoluzioni successive non rappresentano più un paradigma operativo attuale. Tuttavia, risulta imprescindibile disporre di alcune linee guida e di un metodo di progetto. Il nostro approccio è di natura sperimentale, aperta, pur mantenendo rigore e precisione in determinati ambiti.
LA: In quale misura la facoltà dello studente di autogovernare il proprio percorso formativo assume rilevanza pedagogica nel contesto dell’architettura?
MB: È necessario fornire agli studenti un quadro di riferimento piuttosto preciso. È fondamentale determinare con chiarezza i materiali di progetto da produrre, inclusi disegni, modelli, immagini e altri esiti simili. Inoltre, è fondamentale concedere agli studenti uno spazio di movimento autonomo per permettere lo sviluppo di un linguaggio e di modalità operative proprie.
LA: L’insegnamento dell’architettura nella contemporaneità non si limita più alla formazione di progettisti o professionisti, ma si estende alla produzione di pratiche spaziali che intersecano altre discipline, tra cui le scienze dure, l’antropologia e l’arte. Quale ruolo può svolgere oggi l’educazione progettuale architettonica, come disciplina autonoma dotata di propri strumenti e codici, nella formazione di queste figure ibride?
MB: Sono convinto che nei prossimi anni si registreranno sviluppi significativi in tale direzione. Tuttavia, è fondamentale preservare la competenza specifica dell’architetto, in merito alla capacità di gestire la scala del progetto, la sua misura, le altezze, l’organizzazione dello spazio, l’articolazione di piante e sezioni. Nessun’altra disciplina può vantare una simile forma di conoscenza. Contemporaneamente, è essenziale mantenere una posizione di apertura verso nuove discipline e saper adattarsi a una società in evoluzione, anche in termini tecnici, come nel caso dei materiali da costruzione o delle problematiche climatiche. Esistono molteplici discipline emergenti ai margini dell’architettura con cui è necessario negoziare, senza tuttavia rinunciare a rivendicare la propria competenza e il proprio ruolo di specialisti.
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Luigiemanuele Amabile – Architect and PhD, research fellow for the project DT2 (UdR Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Mikael Bergquist – Architect and lecturer at the KTH Royal Institute of Technology. -
We don’t have all the answers – we explore together
Luigiemanuele Amabile in conversation with Marius Grootveld.
LA: How does granting students autonomy over their research trajectories impact motivation, critical engagement, and the coherence of studio discourse, and how should this autonomy be balanced with structured guidance?
MG: At the beginning of each studio, I try to instil a sense of responsibility in the students by emphasizing the importance of their research. I make it clear that I don’t have all the answers to the questions I pose, and that I am eager to explore these questions alongside them throughout the studio. We always build upon the work of our previous studios and the ideas generated by other students. This helps to convey to each new student that they are part of a lineage of thoughts. We often begin by working within the constraints of the ideas that previous studios have produced, staying true to these concepts rather than veering off in a new direction. We start from the known path that was established before, and then each student is encouraged to carve out their own unique path from that starting point. As the studio progresses, we periodically reassess our progress – typically after one or two months. We identify what is effective for individual students and use these insights to collectively establish a new central path from which we can once again explore new directions. This approach gives students a great deal of freedom and autonomy in their decision-making, while also ensuring that the studio maintains a coherence that allows for meaningful conversations to take place between the various projects.
LA: Which organizational frameworks and technological instruments best support collective inquiry and the successive accumulation of knowledge across interconnected studios?
MG: In the studio, a structured approach is maintained within a broader context of interconnected studios, each contributing to the exploration and resolution of overarching themes. Each new studio builds upon the insights of its predecessor, fostering in students a sense of shared responsibility and a collaborative pursuit of meaning. Utilizing tools that facilitate close monitoring of peers’ progress, students are allocated limited tutoring sessions weekly. However, the invaluable knowledge exchange among students is emphasized, transcending the constraints of formal instruction. Weekly uploads of work to a shared server encompass both presentation and source files, enabling detailed examination of each other’s models and drawings. Additionally, multi-channel platforms such as Slack or Discord are utilized for collective sharing of references, techniques, literature, and progress, enhancing the collaborative learning experience and promoting a sense of community within the studio environment.
LA: To what extent does the material character and spatial configuration of the design studio influence pedagogical dynamics, and through which mechanisms does it shape trust, engagement, and productivity?
MG: I believe that the physical environment in which the Design Studio is situated does not necessarily have a direct impact on the progress of the studio. The key factor lies in the ability to establish intimacy with students, fostering trust and a shared ambition to achieve project goals. While a tranquil setting may set a certain tone for meetings, this influence is primarily superficial. An interesting anecdote I can share involves the Studio Station to Station project, which was conducted just prior to the global pandemic. Originally, the project involved weekly train journeys from Aachen to Oostend, utilizing the moving train as a unique workspace to inspire architectural designs in motion. However, with the onset of the pandemic, we were confined to virtual platforms, relying on digital representations for our design work. Engaging in a form of “quarantine archaeology,” we gathered online images of the site from platforms like Street View, Google Maps, and social media. These images were then used to construct a three-dimensional collage representing the site. Working remotely behind screens diminished the significance of physical space, with the digital model becoming the focal point of the design studio. The boundary between the model space and the studio space became blurred, establishing a direct connection with the studio’s theme.
LA: Given the growing intersections between architecture and fields such as artificial intelligence, anthropology, and the arts, what unique contributions can design education – through its specialized tools, codes, and epistemologies – make to the formation of hybrid practitioners?
MG: Within our studios, there exists a significant overlap between our practice and the emergence of artificial intelligence. We observe numerous meaningful interconnections as generative image models draw upon patterns and structures inherent in a given dataset. Given that architectural design places substantial emphasis on patterns and structure, notable correlations can be identified between these two disciplines. This parallels the situation in the 1980s when linguistic philosophy also concentrated on patterns and structures within language, establishing a strong connection with the architectural profession.
LA: Which conditions within both the built environment and its surrounding natural realm should contemporary architectural design studios interrogate first, and what justifies the prioritization of these concerns?
MG: In our studios we endeavour to integrate the built and natural environment as directly as possible, examining and digitally scanning the existing concrete space as a foundation for design. We ask how little needs to be added to tell a new story and how much is already present. Can a building change while remaining the same? Unearthing the new within the old may be the most sustainable approach of all.
LA: In light of the imperative to address climate change and reduce construction, can architecture still claim disciplinary autonomy as a field devoted primarily to “knowledge of form,” and what implications arise from maintaining such a focus?
MG: The study of architecture can less and less be considered a knowledge of form. The search for answers where our profession should go in relationship to climate change and the increasing pressure to build less leaves students less easy with a solitary understanding of architecture as knowledge of form. This was made evident on a recent excursion we undertook to the Netherlands where the students found little to no identity with the projects that purely dealt in form. Projects which were seminal to the architecture of the early 2000s, a period where form was key.
LA: Which enduring conceptual and methodological legacies from twentieth-century architectural pedagogy continue to inform – or demand reevaluation within – today’s transformed cultural and environmental contexts?
MG: A century is a long time, and as many concerns return in a cyclical manner, past disciplinary teaching always remains relevant. The only thing that shifts is the focus from one aspect of history to another.
LA: How would you characterize the distinctive pedagogical profile of architectural instruction at RWTH Aachen, and in what ways does it differentiate itself from other European schools?
MG: Having instructed in the Netherlands, Belgium, and Aachen, the RWTH distinguishes itself through a combination of a technological and theoretical focus. This approach contrasts with the emphasis on theory over detail in the Netherlands and on detail and artistic aspects in Belgium. The technical compliment allows Aachen to test a theory in a more concise manner.
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Non abbiamo tutte le risposte – esploriamo insieme
Luigiemanuele Amabile in conversazione con Marius Grootveld.
LA: In che modo concedere agli studenti autonomia nel percorso di ricerca influisce sulla motivazione, sull’impegno critico e sulla coerenza del discorso in laboratorio, e come dovrebbe essere bilanciata questa autonomia con una guida strutturata?
MG: All’inizio di ogni laboratorio, cerco di instillare negli studenti un senso di responsabilità, sottolineando l’importanza della loro ricerca. Faccio capire chiaramente che non ho tutte le risposte alle domande che pongo, e che desidero esplorare insieme a loro queste questioni lungo tutto il percorso. Lavoriamo sempre a partire dai risultati dei laboratori precedenti e dalle idee generate da altri studenti. Questo contribuisce a trasmettere a ogni nuovo studente l’idea di far parte di una linea di pensiero in continua evoluzione. Spesso iniziamo lavorando entro i limiti delle idee sviluppate nei laboratori precedenti, rimanendo fedeli a quei concetti piuttosto che deviare verso nuove direzioni. Partiamo da un sentiero già tracciato, e ogni studente viene poi incoraggiato a ritagliarsi un percorso proprio a partire da lì. Man mano che il laboratorio progredisce, rivalutiamo periodicamente il nostro andamento – in genere dopo uno o due mesi. Identifichiamo ciò che funziona per ogni singolo studente e usiamo queste intuizioni per stabilire collettivamente un nuovo percorso centrale da cui esplorare ancora nuove direzioni. Questo approccio concede agli studenti molta libertà e autonomia decisionale, garantendo al tempo stesso che il laboratorio mantenga una coerenza tale da permettere conversazioni significative tra i vari progetti.
LA: Quali strutture organizzative e strumenti tecnologici supportano meglio l’indagine collettiva e l’accumulo progressivo di conoscenza tra laboratori interconnessi?
MG: Nell’atelier manteniamo un approccio strutturato all’interno di un contesto più ampio di laboratori interconnessi, ognuno dei quali contribuisce all’esplorazione e alla risoluzione di tematiche generali. Ogni nuovo atelier si basa sulle intuizioni del precedente, promuovendo negli studenti un senso di responsabilità condivisa e una ricerca collaborativa di significato. Utilizzando strumenti che permettono un monitoraggio attento del progresso dei colleghi, agli studenti vengono assegnate sessioni di tutoraggio limitate ogni settimana. Tuttavia, viene data grande importanza allo scambio di conoscenze tra pari, andando oltre i limiti dell’insegnamento formale. Il caricamento settimanale del lavoro su un server condiviso comprende sia i file di presentazione sia quelli sorgente, permettendo un esame dettagliato dei modelli e dei disegni degli altri. Inoltre, piattaforme multicanale come Slack o Discord vengono utilizzate per la condivisione collettiva di riferimenti, tecniche, testi e avanzamenti, migliorando l’esperienza di apprendimento collaborativa e promuovendo un senso di comunità all’interno del laboratorio.
LA: In che misura il carattere materiale e la configurazione spaziale del laboratorio influenzano la dinamica pedagogica, e attraverso quali meccanismi incidono su fiducia, coinvolgimento e produttività?
MG: Credo che l’ambiente fisico in cui si svolge il laboratorio non abbia necessariamente un impatto diretto sull’andamento del lavoro. Il fattore chiave sta nella capacità di instaurare un rapporto intimo con gli studenti, creando fiducia e un’ambizione condivisa nel raggiungere gli obiettivi del progetto. Un ambiente tranquillo può certo creare una certa atmosfera durante gli incontri, ma si tratta di un’influenza soprattutto superficiale. Un aneddoto interessante riguarda il progetto Studio Station to Station, svolto poco prima della pandemia globale. In origine, il progetto prevedeva viaggi settimanali in treno da Aquisgrana a Ostenda, utilizzando il treno in movimento come spazio di lavoro per ispirare progetti architettonici in movimento. Tuttavia, con l’arrivo della pandemia, ci siamo ritrovati confinati sulle piattaforme virtuali, facendo affidamento su rappresentazioni digitali per il nostro lavoro. In una sorta di “archeologia di quarantena”, abbiamo raccolto immagini del sito da piattaforme come Street View, Google Maps e i social media. Queste immagini sono state poi usate per costruire un collage tridimensionale del luogo. Lavorare a distanza dietro a uno schermo ha diminuito l’importanza dello spazio fisico, ponendo il modello digitale al centro del laboratorio. Il confine tra lo spazio del modello e lo spazio del laboratorio si è sfumato, instaurando un legame diretto con il tema dell’atelier.
LA: Visti gli intrecci crescenti tra architettura e ambiti come l’intelligenza artificiale, l’antropologia e le arti, quale contributo specifico può offrire l’educazione al progetto – con i suoi strumenti, codici ed epistemologie – alla formazione di professionisti ibridi?
MG: Nei nostri laboratori, esiste una significativa sovrapposizione tra la nostra pratica e l’emergere dell’intelligenza artificiale. Notiamo numerose connessioni significative, poiché i modelli generativi per immagini si basano su schemi e strutture intrinseche ai dataset di partenza. Poiché la progettazione architettonica dà grande rilievo a pattern e strutture, si possono individuare importanti analogie tra queste due discipline. Questo richiama quanto avveniva negli anni ’80, quando la filosofia del linguaggio si concentrava anch’essa su pattern e strutture, creando un legame profondo con la professione architettonica.
LA: Quali condizioni, sia dell’ambiente costruito che di quello naturale, dovrebbero essere indagate prioritariamente dai laboratori contemporanei, e cosa giustifica la scelta di queste priorità
MG: Nei nostri laboratori cerchiamo di integrare in modo diretto l’ambiente costruito e quello naturale, analizzando e scansionando digitalmente lo spazio concreto esistente come punto di partenza per il progetto. Ci chiediamo quanto poco sia necessario aggiungere per raccontare una nuova storia, e quanto invece sia già presente. Un edificio può cambiare restando lo stesso? Portare alla luce il nuovo nell’esistente potrebbe essere l’approccio più sostenibile in assoluto.
LA: Alla luce dell’urgenza climatica e della necessità di ridurre le costruzioni, l’architettura può ancora rivendicare l’autonomia disciplinare come campo dedito primariamente alla “conoscenza della forma”? E quali implicazioni comporta il mantenimento di tale centralità?
MG: Lo studio dell’architettura può essere sempre meno considerato come mera conoscenza della forma. La ricerca di risposte su quale direzione debba prendere la nostra professione in relazione al cambiamento climatico e alla crescente pressione a costruire meno rende sempre più difficile per gli studenti vedere l’architettura come semplice conoscenza formale. Questo è emerso chiaramente durante una recente escursione nei Paesi Bassi, dove gli studenti non si sono identificati con progetti che si occupavano esclusivamente della forma – progetti che erano stati fondamentali per l’architettura dei primi anni 2000, un’epoca in cui la forma era centrale.
LA: Quali eredità concettuali e metodologiche dell’insegnamento dell’architettura del XX secolo continuano a influenzare – o necessitano di essere rivalutate all’interno – dei contesti culturali e ambientali odierni?
MG: Un secolo è un periodo lungo, e poiché molte questioni tornano ciclicamente, l’insegnamento disciplinare del passato resta sempre rilevante. L’unica cosa che cambia è l’attenzione, che si sposta da un aspetto della storia a un altro.
LA: Come descriverebbe il profilo pedagogico distintivo dell’insegnamento dell’architettura alla RWTH Aachen, e in che modo si differenzia rispetto ad altre scuole europee?
MG: Avendo insegnato nei Paesi Bassi, in Belgio e ad Aquisgrana, direi che la RWTH si distingue per una combinazione di attenzione tecnologica e teorica. Questo approccio contrasta con l’enfasi sulla teoria a discapito del dettaglio nei Paesi Bassi, e con l’enfasi sul dettaglio e sugli aspetti artistici in Belgio. Il complemento tecnico consente ad Aquisgrana di testare una teoria in modo più preciso.
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Luigiemanuele Amabile – Architect and PhD, research fellow for the project DT2 (UdR Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Marius Grootveld – Lecturer at GBL, Chair of Building Typologies and Design Basics; RWTH Aachen -
Crush-up: collaborations for architectural futures
Luigiemanuele Amabile in conversation with Ignacio Borrego
LA: Which challenges – both within the physical context and the wider natural environment – ought contemporary architectural design studios to engage with, and why are these concerns pressing for the formation of tomorrow’s architects?
IB: We believe at our department (CoLab – Collaborative Design Laboratory) at the Technical University of Berlin that the education of the architect of the future should be wide and diverse. It is not the task of the educators or the responsibility of a faculty to focus the interests of students in one particular direction, but rather to offer a rich constellation of questions so that each student may chart their own path. This argument does not promote the primacy of general knowledge; on the contrary, it underlines the value of a multitude of highly specific approaches to architecture. Mass teaching in academic environments has created a certain distance between learning and professional practice. A theoretical approach is necessary, but the constraints engendered by actual building activities also impart essential lessons. At CoLab, we consider prototyping and digital fabrication to be crucial bridges across this divide. The advent of new digital tools has triggered a revolution not only in our disciplinary methods, but also in emergent pedagogies and in the training of future architects. The institutionalization of architectural education began in 1671 with the founding of the École des Beaux-Arts in Paris. Soon thereafter – spurred by the Industrial Revolution’s demand for large numbers of trained professionals – the traditional sequence between praxis and theory was inverted. Until that point, the exchange between master and apprentice took place through direct building experience, with theoretical reflection growing out of increasingly codified knowledge. Today’s conventional academic training often thrusts nascent architects into a reality whose complexity far outstrips the scope of their education. Nevertheless, the new flows of information and the diverse arsenal of digital production techniques have succeeded, in many respects, in reconnecting creation with construction – and may once again unite education with hands-on experience.
LA: By what organizational structures and methodological instruments should a design studio be configured in order to foster collaborative knowledge gain, emulate professional practice, and meet the pedagogical objectives you outline?
IB: At CoLab, we endeavour to import facets of professional practice into the academic sphere – such as collaboration among diverse stakeholders and the cumulative progression of knowledge from one semester to the next. In one model, all students pursue a common overarching goal, with each individual responsible for a distinct physical fragment. In another, tasks are partitioned into domains (for example, contextual analysis, social impact assessment, and construction detailing), and each student assumes responsibility for one specialty while coordinating closely with peers. Through these formats, we recreate real-world conditions of professional interaction within our academic laboratory.
LA: In what ways does the spatial configuration of the design studio – its communal workshop zones versus individual workstations – shape the educational dynamics of architectural pedagogy, and what principles should guide its layout?
IB: Our facilities provide generous communal spaces for interaction alongside dedicated individual workstations for project development. However, we have found that the manner in which these spaces are programmed and the patterns of interaction they encourage exert an even greater influence on the pedagogical experience than their physical dimensions alone.
LA: Given the current imperative for architects to address climate change and resource scarcity – while often assuming the role of coordinators among specialized experts – can the traditional body of knowledge of architectural design still claim disciplinary autonomy, and if so, on what grounds?
IB: In an era when architects are increasingly called upon to confront climate change and resource crises, yet frequently defer key decisions to industry and act chiefly as intermediaries among multiple specialists, it becomes vital to reclaim both our technical expertise and the agency of our profession. The breadth of knowledge required of architects within this complex network of stakeholders is immense and cannot be comprehensively conveyed during a single course of study. Building upon the historical foundations of architectural pedagogy – sensitizing students to spatial qualities, teaching them to observe, analyze, and critically engage with the built environment – we must extend our remit. Students need not only to understand problems but to frame them, and to discern which bodies of knowledge are necessary for devising spatial interventions that address these challenges.
LA: What conceptual and methodological legacies have we inherited from twentieth-century schools of architectural thought, and to what extent do those paradigms retain relevance – or require rearticulation – in the radically transformed contexts of twenty-first-century practice?
IB: We are not obliged to teach architecture as it is practiced today, but rather as it will be practiced in the future. Disciplinary pedagogy is invariably one step behind innovation. It is therefore more important to teach students how to learn, and how to identify pertinent questions, than to impart specific technical knowledge that may soon be rendered obsolete. Historical awareness remains essential – not to replicate the past, but to transcend it.
LA: How does the degree of autonomy granted to students in steering their own learning trajectories influence their motivational engagement and the overall efficacy of architectural education, and where should the balance lie between self-directed inquiry and structured guidance?
IB: Student choice enhances intrinsic motivation, yet there must be equilibrium: the discipline and potential of architecture can be discovered independently, but also illuminated through top-down guidance.
LA: As architectural training increasingly juxtaposes with disciplines such as the hard sciences, anthropology, and the arts, what distinctive contributions can design education – through its specialized tools, codes, and epistemologies – make to the formation of these emerging hybrid practitioners?
IB: Interdisciplinarity in our profession is not a mere possibility but a present reality. Education should expose students to the widest array of disciplinary perspectives and design methodologies, enabling them to carve out their own paths. Simultaneously, it must provide a framework within which they can experience – and extract maximum value from – the interplay among these varied approaches.
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Crush-up: collaborazioni per un possibile futuro dell’architettura
LA: Quali sfide – sia nel contesto fisico che nell’ambiente naturale più ampio – i laboratori di progettazione architettonica contemporanei dovrebbero affrontare, e perché queste questioni sono urgenti per la formazione degli architetti di domani?
IB: Al nostro dipartimento (CoLab – Collaborative Design Laboratory) presso la Technische Universität di Berlino, crediamo che la formazione dell’architetto del futuro debba essere ampia e diversificata. Non è compito dei docenti, né responsabilità della facoltà, indirizzare gli interessi degli studenti in una direzione specifica, ma piuttosto offrire una ricca costellazione di domande affinché ciascuno possa tracciare il proprio percorso. Questo approccio non promuove la centralità di un sapere generico; al contrario, valorizza la molteplicità di approcci altamente specifici all’architettura. L’insegnamento di massa in ambito accademico ha creato una certa distanza tra apprendimento e pratica professionale. Un approccio teorico è necessario, ma anche i vincoli imposti dall’attività costruttiva concreta trasmettono insegnamenti fondamentali. Al CoLab, riteniamo che il prototipaggio e la fabbricazione digitale siano ponti cruciali per colmare questa distanza. L’avvento dei nuovi strumenti digitali ha innescato una rivoluzione non solo nei metodi disciplinari, ma anche nelle pedagogie emergenti e nella formazione degli architetti del futuro. L’istituzionalizzazione dell’insegnamento dell’architettura ebbe inizio nel 1671 con la fondazione dell’École des Beaux-Arts a Parigi. Poco dopo – spinta dalla domanda di professionisti qualificati generata dalla Rivoluzione Industriale – si invertì la sequenza tradizionale tra pratica e teoria. Fino ad allora, lo scambio tra maestro e apprendista avveniva direttamente sul cantiere, con la riflessione teorica che scaturiva da un sapere sempre più codificato. La formazione accademica convenzionale di oggi proietta spesso giovani architetti in una realtà la cui complessità eccede di gran lunga l’ambito della loro istruzione. Tuttavia, i nuovi flussi informativi e l’ampio arsenale di tecniche digitali di produzione sono riusciti, in molti casi, a riconnettere il momento creativo con quello costruttivo – e possono nuovamente unire l’educazione con l’esperienza diretta.
LA: Attraverso quali strutture organizzative e strumenti metodologici dovrebbe essere configurato un laboratorio di progettazione per favorire l’apprendimento collaborativo, simulare la pratica professionale e raggiungere gli obiettivi pedagogici che ha descritto?
IB: Al CoLab cerchiamo di importare nell’ambito accademico alcune dinamiche della pratica professionale – come la collaborazione tra attori diversi e la progressione cumulativa del sapere da un semestre all’altro. In un modello, tutti gli studenti perseguono un obiettivo comune, con ciascuno responsabile di un frammento fisico specifico. In un altro, i compiti vengono suddivisi per ambiti (ad esempio analisi contestuale, valutazione dell’impatto sociale, dettaglio costruttivo), e ogni studente assume la responsabilità di una specializzazione, coordinandosi strettamente con i colleghi. Attraverso questi formati ricreiamo, all’interno del nostro laboratorio accademico, le condizioni reali dell’interazione professionale.
LA: In che modo la configurazione spaziale del laboratorio di progettazione – tra zone di lavoro comuni e postazioni individuali – influenza le dinamiche educative della pedagogia architettonica, e quali principi dovrebbero guidarne la disposizione?
IB: Le nostre strutture offrono ampi spazi comuni per l’interazione, accanto a postazioni individuali dedicate allo sviluppo dei progetti. Tuttavia, abbiamo riscontrato che il modo in cui questi spazi vengono programmati, e i modelli di interazione che favoriscono, esercitano un’influenza ancora maggiore sull’esperienza pedagogica rispetto alle dimensioni fisiche in sé.
LA: Dato l’attuale imperativo per gli architetti di affrontare il cambiamento climatico e la scarsità di risorse – assumendo spesso il ruolo di coordinatori tra esperti specializzati – può il sapere tradizionale della progettazione architettonica rivendicare ancora un’autonomia disciplinare, e su quali basi?
IB: In un’epoca in cui gli architetti sono sempre più chiamati ad affrontare crisi ambientali e di risorse, ma spesso delegano decisioni fondamentali all’industria e agiscono principalmente come mediatori tra specialisti, diventa essenziale riconquistare sia la competenza tecnica che la capacità decisionale della nostra professione. La quantità di conoscenze richieste all’interno di questa rete complessa di attori è immensa e non può essere trasmessa integralmente in un singolo percorso formativo. Partendo dalle basi storiche della pedagogia architettonica – che insegna a percepire lo spazio, a osservare, analizzare e interrogare criticamente l’ambiente costruito – dobbiamo estendere il nostro raggio d’azione. Gli studenti devono non solo comprendere i problemi, ma saperli formulare, e riconoscere quali saperi sono necessari per elaborare interventi spaziali capaci di affrontarli.
LA: Quali eredità concettuali e metodologiche abbiamo ricevuto dalle scuole di pensiero architettonico del Novecento, e in che misura tali paradigmi restano rilevanti – o richiedono una riformulazione – nei contesti radicalmente trasformati della pratica del XXI secolo?
IB: Non siamo obbligati a insegnare l’architettura così come viene praticata oggi, ma piuttosto come verrà praticata in futuro. La pedagogia disciplinare è inevitabilmente in ritardo rispetto all’innovazione. È quindi più importante insegnare agli studenti a imparare, e a identificare le domande pertinenti, piuttosto che trasmettere saperi tecnici specifici che potrebbero presto diventare obsoleti. La consapevolezza storica resta essenziale – non per ripetere il passato, ma per superarlo.
LA: In che modo il grado di autonomia concesso agli studenti nell’orientare i propri percorsi di apprendimento influisce sulla loro motivazione e sull’efficacia complessiva dell’insegnamento dell’architettura? E dove si colloca il giusto equilibrio tra esplorazione autonoma e guida strutturata?
IB: La possibilità di scelta rafforza la motivazione intrinseca degli studenti, ma è necessario un equilibrio: la disciplina e il potenziale dell’architettura possono essere scoperti autonomamente, ma anche illuminati da una guida dall’alto.
LA: Poiché la formazione architettonica si confronta sempre più con discipline come le scienze dure, l’antropologia e le arti, quali contributi distintivi può offrire l’educazione al progetto – attraverso i suoi strumenti, codici ed epistemologie – alla formazione di questi nuovi professionisti ibridi?
IB: L’interdisciplinarità, nella nostra professione, non è una possibilità futura ma una realtà attuale. La formazione deve esporre gli studenti alla più ampia gamma possibile di prospettive disciplinari e metodologie progettuali, affinché possano costruire un proprio percorso. Allo stesso tempo, deve fornire un quadro entro cui possano comprendere – e trarre il massimo valore – dalle interazioni tra questi approcci differenti.
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Luigiemanuele Amabile – Architect and PhD, research fellow of the project DT2 (UdR Università degli Studi di Napoli “Federico II”).
Ignacio Borrego – Architect and PhD, Professur für Architekturdarstellung und-gestaltung, TU Berlin. -
Teaching, conflicts, ecology
Maria Masi in conversation with Miguel Mesa del Castillo Clavel.
MM: Your work moves between architectural design, academic research, and intensive teaching activity, and is marked by a consistent interest in the relationship between space, ecologies, and society. How do these experiences influence the structure of your courses, and what relationships do they weave between teaching, design practice, and theoretical research?
MMdC: Since the beginning of my teaching experience at the University of Alicante, one of my main goals has been to align the challenges we propose to students with those we face as researchers and designers. This has meant radically rethinking syllabi, teaching methods, and especially the kinds of questions I pose in the classroom. Teaching, as I see it, is not a neutral container for inserting exercises: it’s a testing ground, a critical laboratory where the themes we care about as designers return with urgency and take on a didactic form. When I was a student in Madrid, the design approach was still strictly scale-based: the first year focused on the single-family house, the second on collective housing, and so on, with each year increasing the size of the project as if architectural complexity were a matter of scale. Today, we challenge that logic. Scale is no longer a fundamental criterion for understanding architecture, much less for teaching it. We are interested in other questions: who inhabits places? How? Under what material, ecological, and social conditions? Our focus has shifted to themes often linked to complex environmental and social phenomena, which open up a more layered reflection on design. Every year, we collectively define the teaching proposals, and each course is built around a central theme, often derived from our most current research. In recent years, for example, I’ve worked on the topic of the Blue Humanities, exploring the relationship between architecture and the marine environment – not only along the coast but also in and under the sea. This kind of approach allows me to align design, research, and teaching into a coherent and engaging practice for students.
MM: What tools do you consider essential for a course to effectively address complex and current research themes?
MMdC: In my course, we never start from a given context, a predefined site, or a fixed intervention area. We don’t propose a site or a top-down program. Instead, we begin with a strong, urgent, and contemporary theme – such as the relationship between architecture and the marine environment – and from there, students are asked to identify real contexts. They must propose at least three possible situations, cases, or places, which we then collectively discuss to choose the most suitable one to work on. The choice of site is not just a geographic or operational issue – it’s already a design act. Each student begins to take a stance. Once the context is identified, we dedicate several weeks to in-depth observation, research, and material collection. Students must thoroughly investigate the place: analyzing documents, taking photographs, collecting newspaper articles, searching for historical maps, writing short texts, conducting interviews. They often return to the site multiple times, talk with residents, technicians, experts, and build a personal archive that they share within the studio. The material is then organized and visualized on digital platforms like Miro, but before that, it’s discussed in class, around a table, as a group. Observation is not neutral, and it’s never individual – it’s a collective and situated process. We work a lot on the ability to see and describe complexity, and above all on identifying controversies. I invite students to map both explicit and implicit conflicts present in each situation. I’m inspired by an anthropological approach, particularly the work of Albena Yaneva: students must identify all the actors involved – human and non-human – and understand their interests, roles, and the power they exert over the context. At first, predictably, only human actors emerge: citizens, technicians, local authorities. But then, gradually, environmental elements start to appear: a river, a plant, a migratory species, a geological formation, a seasonal wind. It’s at this stage that the project begins to take shape, even though nothing has been drawn yet. The goal is to build a field of forces, a complex narrative, a network of relationships within which architecture can consciously position itself. Only when this ground has been sufficiently explored do we start to draw.
MM: So would you say that one of the tools is conflict itself, or more precisely, the identification of a certain kind of controversy?
MMdC: Exactly. The project, as we conceive it, doesn’t emerge from a void or an abstract program, but from an existing conflict, from a tension that inhabits the context. The situations we analyze with students are not neutral – they are full of contradictions, opposing interests, incompatible needs, and often also institutional blind spots or silences. It’s within these voids, in these frictions, that a space for design opens up. Our job is to enter into these conflicts with an analytical but non-moralizing gaze. We help students read them without simplifications, to describe the positions at play even when they are ambiguous or uncomfortable. One of the methods we use is to build actual controversy maps: lists of actors, interests, dynamics, and relationships – even contradictory ones – which are then represented, discussed, and kept open. I remember, for example, a project that emerged from a spontaneous plant growing in a crack between two walls outside a student’s home. That plant divided the family: some wanted to remove it, others wanted to protect it. From there, a negotiation process was born, which the student turned into a project to welcome that unexpected presence, give it space, and protect it. It was a small gesture, but highly political and architectural. Another example is a student who worked on a stretch of coastline contested between seasonal tourism and the habitat of flamingos. In that case, the project wasn’t a “solution” to a crisis, but a form of spatial mediation between two deeply different temporalities and logics. I want students to understand that designing doesn’t mean finding the right or definitive answers. In fact, in our studio, the word solution is considered toxic: we write it on the board among the words to avoid. Because every solution carries with it an implicit idea of closure, of ending the discussion. Instead, we want projects that open up questions, that challenge assumptions, that can live with doubt and generate possibilities. The project is a positioning, a critical and situated act – not a salvific gesture.
MM: What kind of output is required from students?
MMdC: The results we expect from students are not standardized. We don’t follow a fixed format, but instead guide each path toward an outcome that’s coherent with the research process developed. That said, there are some constants. After the initial individual phase of observation and analysis, we form groups of three students: each group chooses one of the individually developed projects and continues it collectively. This step is important because it introduces a new dimension: internal negotiation, the ability to listen, to merge perspectives, to build a shared language. The final outcome of this phase is almost always a physical model, but even here we don’t impose a scale or material. Some models are floating, others mobile, others built with reclaimed or low-cost materials. Sometimes they resemble temporary devices, other times almost narrative architectures. In any case, the model is not the final representation of an idea – it’s a tool for testing, a means of continuing to think. We try to ensure that each project preserves its initial complexity. We don’t demand technical perfection, but we do want to see conceptual density, a clear intention, a strong idea behind every choice. Working in a group on a single project also requires the ability to let go of one’s initial idea. Many students become attached to what they produced in the individual phase, but then realize that what truly matters is how that thinking transforms through dialogue with others. It’s in that transition – from solitary research to collective construction – that something valuable happens: the project becomes a site of exchange, experimentation, and even productive conflict.
MM: How is all of this managed in day-to-day teaching practice?
MMdC: In daily practice, it’s first of all essential to respect the time allocated by the university for each course and to resist the unfortunately widespread tendency of professors to compete over who can occupy more of the students’ lives. For me, this is also an ethical issue: I don’t want the university to become a preview of the exploitative logic many students will face later on. We work on design, but we also work on how we relate to time, responsibility, and the care of the process. Deliverables are spaced throughout the semester and follow a deliberate rhythm. Each phase of the course is designed to support the project’s progression, not to overwhelm. The first part is dedicated to exploration and analysis; then comes a more operational phase, where students begin drawing and building models. But even here, I try to avoid a rush to produce. I’m not interested in groups submitting ten boards: I care that those boards, those models, those words reflect a coherent, layered, and well-discussed thought process. At the end of the semester, we also organize public events – gatherings and celebrations – where the projects are presented openly, involving students from other years or courses. These events are very important because they reinforce a sense of belonging to a learning community. We don’t think of them only as exhibitions, but as opportunities for exchange, dialogue, and celebration.
MM: Does theory deserve formal space in an Architectural Design Studio?
MMdC: Officially, my course doesn’t include theory, but I insert it anyway. I give theoretical lectures, provide references, and present projects or experiences I consider meaningful. These are not always architectural – often I introduce work by activists, artists, scientists. I use short readings, visual stimuli, documentaries. Additionally, within the department, we organize lecture series, seminars, and invite guests. One of the projects I care about most is Il Chiosco, an open and informal format for presenting books or research. The plurality of voices is central: we share practices, reflections, and methods, creating a collective and transdisciplinary learning environment. That’s also why we developed a website (proyectosarquitectonicos.ua.es) where we collect and archive students’ work, theses, research, and course documentation. It’s an essential tool not only for showcasing our work, but also for building a shared memory of the teaching experience. The site was designed and built with students and colleagues, as a space for archiving, but also for orientation and inspiration in future years.
MM: What role does the physical space of the studio play in your teaching? How does the working environment affect the learning process?
MMdC: The space in which we work plays a fundamental role. We always try to reconfigure it: we move the tables, arrange them into a large central one to facilitate discussion and shared views of the projects. It’s important that students can see and hear each other, and engage in dialogue. We don’t work in isolation: the studio is a living space, where ideas take shape in relation. Alongside this, we use digital tools like Miro to organize materials and connect different phases of the process, but everything starts from a shared, physical space that fosters collective learning.
MM: What do you hope students take away at the end of the course?
MMdC: I want them to learn to think, not just represent. To understand that architecture is a form of situated knowledge. That every project is born within a landscape of relationships, tensions, powers, and ecologies. I want them to be able to observe and imagine, without needing to conform to a pre-existing model. Even the most imperfect drawings, if they carry a strong idea, are worth more than a perfect but empty image. The goal is not to build a career, but to develop a critical posture.
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Didattica, conflitti, ecologia
Maria Masi in conversazione con Miguel Mesa del Castillo Clavel
MM: Il suo lavoro si muove tra la progettazione architettonica, la ricerca accademica e un’intensa attività didattica, ed è attraversato da un interesse costante per le relazioni tra spazio, ecologie e società. In che modo queste esperienze influenzano l’impostazione dei corsi e quali relazioni tessono tra didattica, pratica progettuale e ricerca teorica?
MMdC: Fin dall’inizio della mia esperienza come docente all’Universidad de Alicante, uno degli obiettivi principali è stato allineare le sfide proposte agli studenti con quelle che affrontiamo come ricercatori e progettisti. Questo ha significato rivedere radicalmente i syllabus, le modalità di insegnamento e soprattutto le domande che pongo in aula. La didattica, per come la intendo, non è un contenitore neutro in cui inserire esercitazioni: è un campo di prova, un laboratorio critico in cui i temi di cui ci interessiamo come progettisti ritornano con urgenza e prendono forma didattica. Quando ero studente a Madrid, l’approccio alla progettazione era ancora rigidamente scalare: il primo anno era dedicato alla casa unifamiliare, il secondo all’edificio collettivo, e via crescendo. Ogni anno corrispondeva a un incremento dimensionale dell’oggetto da progettare, come se la complessità architettonica fosse una questione di grandezza. Oggi mettiamo in discussione questa logica. La scala, infatti, non è più un criterio fondante per comprendere l’architettura, né tantomeno per insegnarla. Ci interessano altre domande: chi abita i luoghi? In che modo? In quali condizioni materiali, ecologiche, sociali? Il nostro focus si è spostato su tematiche spesso legate a fenomeni complessi, ambientali e sociali, che aprono a una riflessione più articolata sul progetto. Ogni anno definiamo collettivamente le proposte didattiche, e ogni corso è costruito attorno a una tematica centrale, che spesso deriva proprio dalle nostre linee di ricerca più attuali. Negli ultimi anni, per esempio, ho lavorato sul tema delle Blue Humanities, affrontando il rapporto tra architettura e ambiente marino – non solo sulla costa, ma anche nel mare e sotto il mare. Questo tipo di approccio mi permette di far coincidere la progettualità, la ricerca e la didattica in una pratica coerente e coinvolgente per gli studenti.
MM: Quali strumenti ritiene fondamentali affinché un corso sia in grado di affrontare con efficacia tematiche di ricerca attuali e complesse?
MMdC: Nel mio corso non si parte mai da un contesto dato, un lotto o un’area di intervento predefinita e delimitata. Non proponiamo un sito o un programma imposto dall’alto. Partiamo invece da una tematica forte, urgente e contemporanea – come può essere il rapporto tra architettura e ambiente marino – e da lì chiediamo agli studenti di identificare contesti reali. Sono loro a proporre almeno tre possibili situazioni, casi o luoghi, che poi discutiamo collettivamente per individuare quello più adatto su cui lavorare. La scelta del sito non è solo una questione geografica o operativa: è già un atto progettuale. Ogni studente inizia a prendere una posizione. Una volta individuato il contesto, dedichiamo diverse settimane a un lavoro approfondito di osservazione, ricerca e raccolta di materiali. Gli studenti devono investigare a fondo il luogo: analizzano documenti, fanno fotografie, raccolgono articoli di giornale, cercano mappe storiche, scrivono brevi testi, fanno interviste. Spesso tornano più volte sul campo, parlano con residenti, tecnici, esperti, e costruiscono un archivio personale che condividono all’interno del laboratorio. Il materiale viene poi ordinato e visualizzato su piattaforme digitali come Miro, ma prima ancora è discusso in aula, attorno a un tavolo, in gruppo. L’osservazione non è neutra, e non è mai individuale: è un processo collettivo e situato. Lavoriamo molto sulla capacità di vedere e descrivere la complessità, e soprattutto sull’identificazione delle controversie. Invito gli studenti a mappare i conflitti impliciti ed espliciti presenti in ogni situazione. Mi ispiro a un approccio mutuato dall’antropologia, in particolare ai lavori di Albena Yaneva: gli studenti devono individuare tutti gli attori coinvolti – umani e non umani – e comprendere quali interessi, ruoli e poteri esercitano sul contesto. All’inizio, come prevedibile, emergono solo soggetti umani: cittadini, tecnici, enti locali. Ma poi, piano piano, cominciano a entrare anche gli elementi ambientali: un fiume, una pianta, una specie migratoria, una formazione geologica, un vento stagionale. È in questa fase che il progetto comincia a prendere forma, anche se non si disegna ancora nulla. L’obiettivo è costruire un campo di forze, una narrazione complessa, una rete di relazioni dentro la quale l’architettura possa posizionarsi consapevolmente. Solo quando questo terreno è stato sufficientemente esplorato, allora si comincia a disegnare.
MM: Si potrebbe dire allora che uno degli strumenti è proprio il conflitto, o meglio l’individuazione di un certo tipo di controversia?
MMdC: Esatto. Il progetto, per come lo intendiamo, non nasce da un vuoto o da un programma astratto, ma da un conflitto già in atto, da una tensione che abita il contesto. Le situazioni che analizziamo con gli studenti non sono neutre: sono cariche di contraddizioni, interessi contrapposti, necessità incompatibili, e spesso anche silenzi o cecità istituzionali. In questi vuoti, in queste frizioni, si apre uno spazio per il progetto. Il nostro lavoro è proprio quello di entrare in questi conflitti con uno sguardo analitico ma non moralista. Aiutiamo gli studenti a leggerli senza semplificazioni, a descrivere le posizioni in campo anche quando sono ambigue o scomode. Uno dei metodi che usiamo è costruire delle vere e proprie mappe di controversie: elenchi di attori, interessi, dinamiche, relazioni – anche contraddittorie – che poi vanno rappresentate, discusse, e tenute aperte. Ricordo, per esempio, un progetto nato da una pianta spontanea cresciuta in una fessura tra due muri, davanti alla casa di uno studente. Quella pianta divideva la famiglia: alcuni volevano eliminarla, altri volevano proteggerla. Da lì è nato un processo di negoziazione, che lo studente ha trasformato in un progetto per accogliere quella presenza imprevista, darle spazio, proteggerla. Era un gesto piccolo, ma altamente politico e architettonico. Un altro esempio è quello di uno studente che ha lavorato su un tratto di costa conteso tra turismo stagionale e habitat dei fenicotteri. In quel caso, il progetto non era una “soluzione” a una crisi, ma una forma di mediazione spaziale tra due temporalità e due logiche profondamente diverse. Voglio che gli studenti capiscano che progettare non significa trovare risposte giuste o definitive. Anzi, nel nostro laboratorio la parola “soluzione” è considerata tossica: la scriviamo proprio sulla lavagna tra le parole da evitare. Perché ogni soluzione porta con sé un’idea implicita di chiusura, di fine della discussione. Invece noi vogliamo progetti che aprano questioni, che mettano in discussione, che sappiano stare nel dubbio e generare possibilità. Il progetto è un posizionamento, un atto critico e situato, non un gesto salvifico.
MM: Che tipo di output è richiesto agli studenti?
MMdC: I risultati che chiediamo agli studenti non sono standardizzati. Non seguiamo un format fisso, ma accompagniamo ogni percorso verso un esito che sia coerente con il processo di ricerca sviluppato. Tuttavia, ci sono alcune costanti. Dopo la prima fase individuale di osservazione e analisi, formiamo dei gruppi di tre studenti: ciascun gruppo sceglie uno dei progetti sviluppati singolarmente e lo porta avanti collettivamente. Questo passaggio è importante perché introduce una nuova dimensione: la negoziazione interna al gruppo, la capacità di ascoltare, di fondere punti di vista, di costruire un linguaggio condiviso. L’esito finale di questa fase è quasi sempre un modello fisico, ma anche qui non imponiamo una scala o un materiale. Alcuni modelli sono galleggianti, altri mobili, altri ancora costruiti con materiali poveri o recuperati. A volte sembrano dispositivi temporanei, altre volte sono quasi architetture narrative. In ogni caso, il modello non è la rappresentazione finale di un’idea, ma uno strumento di verifica, un mezzo per continuare a pensare. Cerchiamo di far sì che ogni progetto preservi la complessità iniziale. Non chiediamo una restituzione perfetta dal punto di vista tecnico, ma vogliamo che emerga una densità concettuale, un’intenzione chiara, un pensiero forte dietro ogni scelta. Lavorare in gruppo su un solo progetto richiede anche una certa disponibilità a lasciar andare la propria idea iniziale. Molti studenti si affezionano a ciò che hanno prodotto nella prima fase individuale, ma poi capiscono che ciò che conta davvero è come quel pensiero si trasforma nel confronto con gli altri. È in questo passaggio – dalla ricerca solitaria alla costruzione collettiva – che accade qualcosa di prezioso: il progetto diventa un terreno di scambio, di sperimentazione, e anche di conflitto produttivo.
MM: Come si gestisce tutto questo nella pratica didattica quotidiana?
MMdC: Nella pratica quotidiana è innanzitutto fondamentale rispettare il tempo che l’università stabilisce per ciascun corso e opporsi a quella tendenza – purtroppo diffusa – che porta i docenti a competere su chi riesce a occupare più spazio nella vita degli studenti. Per me è anche una questione etica: non voglio che l’università diventi un’anticipazione delle logiche di sfruttamento che molti ragazzi incontreranno dopo. Lavoriamo sul progetto, ma lavoriamo anche sul modo in cui ci si relaziona al tempo, alla responsabilità, alla cura del processo. Le consegne sono distribuite nel semestre e seguono un ritmo ragionato. Ogni fase del corso è pensata per accompagnare la progressione del progetto, non per affaticare. La prima parte è dedicata all’esplorazione e all’analisi; poi c’è una fase più operativa, in cui si comincia a disegnare e costruire modelli. Ma anche qui cerco di evitare la corsa alla produzione. Non mi interessa che ogni gruppo consegni dieci tavole: mi interessa che quelle tavole, quei modelli, quelle parole siano il risultato di un pensiero coerente, stratificato, discusso.
Alla fine del semestre, organizziamo anche momenti pubblici, di incontro e festa, in cui i lavori vengono presentati in modo aperto, coinvolgendo anche studenti di altri anni o di altri corsi. Sono eventi molto importanti perché rafforzano il senso di appartenenza a una comunità didattica. Li pensiamo non solo come esposizioni, ma come occasioni di scambio, di confronto, di celebrazione.MM: La teoria merita uno spazio formale in un Laboratorio di Progettazione Architettonica?
MMdC: Ufficialmente nel mio corso non è prevista teoria, ma io la inserisco. Faccio lezioni teoriche, fornisco riferimenti, presento progetti o esperienze che ritengo significative. Non sempre si tratta di architetture: spesso propongo ricerche di attivisti, artisti, scienziati. Uso letture brevi, stimoli visivi, documentari. Inoltre, all’interno del Dipartimento organizziamo cicli di presentazioni, seminari, invitiamo ospiti. Uno dei progetti che mi sta più a cuore è il Chiosco, un format aperto e informale per la presentazione di libri o ricerche. La pluralità di voci è centrale: condividiamo pratiche, riflessioni e metodi, creando un contesto di apprendimento collettivo e transdisciplinare. Per questo abbiamo sviluppato un sito (proyectosarquitectonicos.ua.es) dove raccogliamo e archiviamo i lavori degli studenti, tesi, ricerche e documentazioni dei corsi. È uno strumento essenziale non solo per dare visibilità ai percorsi, ma anche per costruire una memoria condivisa della didattica. Il sito è stato pensato e realizzato con studenti e colleghi, come spazio di archiviazione, ma anche come luogo di orientamento e ispirazione per gli anni successivi.
MM: Che ruolo ha lo spazio fisico del Laboratorio all’interno della sua didattica? In che modo l’ambiente in cui si lavora incide sul processo formativo?MMdC: Lo spazio in cui lavoriamo ha un ruolo fondamentale. Cerchiamo sempre di riconfigurarlo: spostiamo i tavoli, ne componiamo uno grande, centrale, per facilitare il confronto e la visione condivisa dei progetti. È importante che ci si possa guardare l’un l’altro, ascoltare, discutere. Non lavoriamo in isolamento: il laboratorio è un luogo vivo, dove le idee si costruiscono anche nella relazione. Accanto a questo, utilizziamo strumenti digitali come Miro per organizzare materiali e collegare fasi diverse del processo, ma tutto parte da uno spazio condiviso, fisico, che favorisce l’apprendimento collettivo.
MM: Cosa vuole che gli studenti portino con sé, alla fine del percorso?
MMdC: Voglio che imparino a pensare, non solo a rappresentare. Che capiscano che l’architettura è una forma di conoscenza situata. Che ogni progetto nasce dentro un paesaggio di relazioni, tensioni, poteri, ecologie. Voglio che siano capaci di osservare e immaginare, senza bisogno di conformarsi a un modello preesistente. Anche i disegni più imperfetti, se sono portatori di un pensiero forte, valgono più di un’immagine perfetta ma vuota. L’obiettivo non è costruire una carriera, ma formare una postura critica.
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Maria Masi – Architect and PhD, Research Fellow, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Miguel Mesa del Castillo Clavel – Profesor Contratado Doctor, Universidad de Alicante.Mappa “Agentes y agencias” del progetto Okunoshima – Isle of Rabbits, di Mario Martínez García. Proyecto Fin de Máster, Universidad de Alicante, anno accademico 2021–2022. Veduta “El fin de la ciudad” del progetto Antígona Acelerada, di Jordi Guijarro Contreras. Proyecto Fin de Máster, Universidad de Alicante, anno accademico 2021–2022. Tavola di progetto. Un baño para el Acuífero 24, di Sixto Nieto Fuentes. Proyecto Fin de Máster, Universidad de Alicante, anno accademico 2021–2022. Assonometria di progetto. Airport, Sweet Airport, di Carolina Díaz de Argandoña Araujo. Proyecto Fin de Máster, Universidad de Alicante, anno accademico 2021–2022. -
Teaching repetition
Valentina Noce in conversation with Andreas Lechner.
VN: The first thing I wanted to talk to you about is my struggle when teaching between two kinds of approaches. The first one is almost like a psychological, psychotherapy approach to students – where you act as a kind of disturbing observer. You let the students do what they want, guiding them but allowing them to explore freely. That can be very good, but also very bad, especially when you have a heterogeneous group of students, with very different backgrounds and tools, like in architecture. It’s very difficult. But on the other hand, maybe it’s more successful if you build a structure and teach a methodology. Also, having been your student for a short time, I noticed you have a very clear idea of the process and of the expected results, like drawings. So I wanted to ask you: why do you think this approach is the right one?
AL: Absolutely. Helping students find themselves is an essential part of the pedagogical process – especially in architecture, where self-discovery is inextricably tied to the development of one’s design identity. I completely understand your point. The quick answer is: yes, to a certain extent. But there’s always an element of chance or unpredictability, because you can never fully know the individual characters, qualities, and abilities of the students you have. While you may have a general sense of where you want to go, you must also be prepared to improvise. Some things are not open to improvisation – in the end, the goal is to produce tangible results: sheets of paper, plans, comparabilities. These are clear, fixed aspects. But how you get there really depends on the specifics of the group you’re working with – their unique idiosyncrasies and dynamics. Of course, the nature of the workshop changes significantly depending on the level. In bachelor courses, tasks tend to be more simplified; they’re designed to teach the foundational skills and principles. In a master’s studio, the complexity increases. At the PhD level, however, it’s different again. The focus shifts toward reflection, theoretical engagement, communication, discursive analysis, and making connections between architecture and broader intellectual fields. This is something I really appreciate here at the Politecnico: having the opportunity to spend five or six days with PhD students, working closely together, confronting challenges, and producing things side by side. It’s a truly unique experience. I’ve only had the pleasure of experiencing this here. And it’s exactly what you should expect at the doctoral level – whether the focus is on representational, speculative, analytical, theoretical, or even design-oriented aspects. Does that make sense?
VN: Yes, because I understood that redrawing – you mentioned it as a tool – was at the center of everything: drawing, and then redrawing as an exercise. I find it interesting because it feels like a scientific experiment – repeating something – but it’s actually not repeatable. It seems scientific to redraw something, but then your book shows that even with 10 people redrawing the same thing, it would always come out different. It’s like pizza – every time someone makes it, it’s different. So I find it interesting that it’s such a strict, methodological, rigorous approach, but also not really “real” in a way.
AL: Exactly. There is no dogma inherent in this approach. While it may initially appear rigid or prescriptive, it is, in fact, the opposite: it is a deeply open, critical, and generative methodology. This directly connects to what I term counterintuitive typologies. Conventionally, typologies are understood as stable frameworks – products of historical precedent, tradition, and accumulated consensus. They serve as schemas that categorize and codify built form. However, counterintuitive typologies subvert this very notion. Rather than accepting typological structures as fixed, they interrogate and destabilize them, revealing their latent potential for transformation. Architecture, by its nature, engages precisely in this act: it extracts from the given – from norms, conventions, inherited patterns – and through critical reconfiguration, produces the unexpected. Thus, true architecture does not merely fulfill programmatic or commercial imperatives; it generates an excess, a surplus that transcends mere utility or exchange value. This surplus is fundamentally formal – it emerges through the inventive arrangement of elements, the articulation of spatial relationships, the generosity or precision of dimensions. It is through these formal decisions that architecture asserts itself as a cultural project rather than a purely economic one. In this sense, architecture operates as a form of productive contradiction: it preserves enough of the typological trace to be legible while simultaneously exceeding it, creating new meanings and experiences. This surplus can be seen as a form of cultural value: a non-quantifiable yet socially transformative byproduct. Architecture thus often precedes and catalyzes processes such as gentrification, precisely because it introduces a qualitative shift –a revaluation of space, atmosphere, and meaning – that subsequently triggers broader economic and social dynamics.
VN: When we did the exercise of redrawing a famous project, it was like taking a picture of a picture, and then another picture, and so on. And at some point it fades – it becomes distorted. Maybe that’s the idea: it starts as something very scientific and strict, but the results always end up fading away. And you mentioned that you lived through this process yourself, on a bigger scale – not just in a semester, but across many years. Like when you redrew and redrew with the calendar project – it’s like having a course stretched over ten years. How was that? How did this long process feel?
AL: That’s an insightful observation. I hadn’t quite thought about it in that way, but it’s absolutely true. A significant part of the process was repetition – repeating the same task over and over, but with subtle variations each time. I wouldn’t necessarily say that it clarified things, but it forced me to make decisions and prioritize, which was invaluable. That aspect of selection and choice is what made it interesting. But the real value came from the repetition, the inevitable fading, and the constant need to start over. At a certain point, however, they changed the master’s curriculum in Graz, and my lecture was removed. Even though the lecture received excellent evaluations – I was even nominated for a teaching prize – the committee decided to cut it. Their reasoning was: “No, we don’t want this niche, specialized content. We want to focus on broader themes like landscape, ecology, the city, construction, sustainability,” and so on.
VN: I was thinking: do you find it interesting when students resist or challenge what you propose? Like when they refuse to do the work – can that be something valuable? Maybe that’s what makes a course more alive – having debate. Maybe that’s why it’s important sometimes not to accommodate students – to be a “bad teacher” occasionally?
AL: Yes, absolutely. I believe student resistance is invaluable. Teaching is a dynamic process, not merely the transmission of knowledge. Resistance challenges me as a teacher to reexamine my own assumptions and pedagogical approach. It compels me to reflect on whether I am merely reinforcing normative structures without critically engaging with them. When I began teaching in 2007, I was assigned first-year students for two years, which gave me the opportunity to introduce the fundamentals of design. The exercises were small, weekly tasks, a structure that allowed me to balance teaching with my PhD work. It created a reflective space, one where we could engage with essential design principles on a weekly basis. The resistance from some students, who questioned whether studying architecture was truly the right path, reminded me of my own critical years in architecture during the 1990s – those years of ‘killing the author,’ of allowing everything to emerge from digital abstraction and calling it architecture, even when it often bordered on pixelated art. In that context, intellectual freedom – and the resistance it sometimes provokes – can be as valuable as challenging students to step beyond their comfort zones without immediately questioning the underlying purpose. So I appreciated the openness to experimentation during my studies, yet upon finishing architecture school, I realized how ill-prepared I was for the practical demands of an architectural office.
VN: You had to start studying architecture after graduating.
AL: Exactly.
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Insegnare la ripetizione
Valentina Noce in conversazione con Andreas Lechner
VN: La prima cosa di cui volevo parlarti è la mia difficoltà, nell’insegnamento, a scegliere tra due approcci diversi. Il primo è quasi di tipo psicologico, psicoterapeutico nei confronti degli studenti – dove agisci come una sorta di osservatore disturbante. Lasci che gli studenti facciano ciò che vogliono, li guidi ma permetti loro di esplorare liberamente. Questo può funzionare molto bene, ma anche molto male, soprattutto quando hai un gruppo eterogeneo di studenti, con background e strumenti molto diversi, come succede in architettura. È davvero difficile. Ma dall’altra parte, forse è più efficace costruire una struttura e insegnare un metodo. Inoltre, avendo seguito il tuo corso per un breve periodo, ho notato che hai un’idea molto chiara del processo e dei risultati attesi, come i disegni. Quindi volevo chiederti: perché pensi che questo approccio sia quello giusto?
AL: Assolutamente. Aiutare gli studenti a trovare sé stessi è una parte essenziale del processo pedagogico – soprattutto in architettura, dove la scoperta di sé è indissolubilmente legata allo sviluppo della propria identità progettuale. Capisco perfettamente il tuo punto di vista. La risposta rapida è: sì, fino a un certo punto. Ma c’è sempre un elemento di casualità o imprevedibilità, perché non puoi mai conoscere pienamente i caratteri, le qualità e le capacità individuali degli studenti che hai. Anche se puoi avere un’idea generale di dove vuoi arrivare, devi anche essere pronto a improvvisare. Ci sono cose che non sono aperte all’improvvisazione – alla fine, l’obiettivo è produrre risultati tangibili: fogli, planimetrie, comparazioni. Questi sono aspetti chiari e fissi. Ma il modo in cui ci arrivi dipende davvero dalle specificità del gruppo con cui stai lavorando – dalle sue idiosincrasie e dinamiche uniche. Naturalmente, la natura del laboratorio cambia significativamente a seconda del livello. Nei corsi di laurea triennale, i compiti tendono a essere più semplificati; sono pensati per insegnare competenze e principi fondamentali. In un atelier di laurea magistrale, la complessità aumenta. Al livello di dottorato, però, è un’altra cosa. L’attenzione si sposta verso la riflessione, l’impegno teorico, la comunicazione, l’analisi discorsiva, e la connessione tra architettura e campi intellettuali più ampi. Questo è qualcosa che apprezzo molto qui al Politecnico: avere la possibilità di passare cinque o sei giorni con i dottorandi, lavorando fianco a fianco, affrontando le sfide insieme e producendo contenuti insieme. È un’esperienza davvero unica. Ho avuto il piacere di viverla solo qui. Ed è esattamente ciò che ci si dovrebbe aspettare a livello dottorale – che l’approccio sia rappresentativo, speculativo, analitico, teorico o anche orientato al progetto. Ha senso?
VN: Sì, perché ho capito che il ridisegno – che tu hai menzionato come uno strumento – è al centro di tutto: disegnare, e poi ridisegnare come esercizio. Lo trovo interessante perché sembra un esperimento scientifico – ripetere qualcosa – ma in realtà non è mai ripetibile. Ridisegnare qualcosa sembra un gesto scientifico, ma poi il tuo libro dimostra che anche se dieci persone ridisegnano la stessa cosa, il risultato sarà sempre diverso. È come la pizza – ogni volta che qualcuno la fa, viene diversa. Quindi trovo interessante che sia un approccio così rigoroso, metodico, ma anche, in un certo senso, “non reale”.
AL: Esattamente. Non c’è alcun dogma in questo approccio. Anche se inizialmente può sembrare rigido o prescrittivo, in realtà è l’opposto: è un metodo profondamente aperto, critico e generativo. Questo si collega direttamente a ciò che chiamo tipologie controintuitive. Convenzionalmente, le tipologie sono intese come strutture stabili – prodotti di precedenti storici, tradizione e consenso accumulato. Servono come schemi che categorizzano e codificano la forma costruita. Tuttavia, le tipologie controintuitive sovvertono proprio questa nozione. Invece di accettare le strutture tipologiche come fisse, le interrogano e le destabilizzano, rivelandone il potenziale latente di trasformazione. L’architettura, per sua natura, si impegna proprio in questo atto: estrae dal dato – da norme, convenzioni, modelli ereditati – e attraverso una riconfigurazione critica, produce l’inaspettato. L’architettura vera, quindi, non si limita a soddisfare imperativi programmatici o commerciali; genera un eccesso, un surplus che trascende l’utilità o il valore di scambio. Questo surplus è fondamentalmente formale – emerge attraverso l’invenzione nell’organizzazione degli elementi, l’articolazione delle relazioni spaziali, la generosità o precisione delle dimensioni. È attraverso queste decisioni formali che l’architettura si afferma come progetto culturale e non puramente economico. In questo senso, l’architettura opera come una forma di contraddizione produttiva: conserva abbastanza della traccia tipologica da restare leggibile, ma la supera, creando nuovi significati ed esperienze. Questo surplus può essere visto come una forma di valore culturale: un sottoprodotto non quantificabile ma socialmente trasformativo. L’architettura, quindi, spesso precede e innesca processi come la gentrificazione, proprio perché introduce un cambiamento qualitativo – una rivalutazione dello spazio, dell’atmosfera, del significato – che successivamente innesca dinamiche economiche e sociali più ampie.
VN: Quando abbiamo fatto l’esercizio di ridisegnare un progetto famoso, è stato come fare una foto di una foto, e poi un’altra foto ancora, e così via. A un certo punto si sbiadisce – diventa distorto. Forse è proprio questa l’idea: inizia come qualcosa di molto scientifico e rigoroso, ma il risultato finisce sempre per dissolversi. E hai detto che tu stesso hai vissuto questo processo, su una scala più ampia – non solo in un semestre, ma nel corso di molti anni. Come nel progetto del calendario, dove ridisegnavi e ridisegnavi – è come se fosse un corso dilatato in dieci anni. Com’è stato? Come ti sei sentito in questo lungo processo?
AL: È un’osservazione molto acuta. Non ci avevo mai pensato in questi termini, ma è assolutamente vero. Una parte significativa del processo è stata la ripetizione – ripetere lo stesso compito più e più volte, ma con variazioni sottili ogni volta. Non direi necessariamente che questo abbia chiarito le cose, ma mi ha costretto a prendere decisioni e a stabilire delle priorità, cosa che si è rivelata preziosissima. È proprio questo aspetto della selezione e della scelta che ha reso il processo interessante. Ma il vero valore stava nella ripetizione, nello sbiadire inevitabile, e nella necessità costante di ricominciare da capo. A un certo punto, però, hanno cambiato il curriculum del master a Graz, e la mia lezione è stata rimossa. Nonostante avesse ricevuto valutazioni eccellenti – ero stato persino candidato a un premio per la didattica – il comitato decise di eliminarla. La motivazione fu: “No, non vogliamo contenuti di nicchia, troppo specializzati. Vogliamo concentrarci su temi più ampi come il paesaggio, l’ecologia, la città, la costruzione, la sostenibilità”, e così via.
VN: Pensavo: trovi interessante quando gli studenti si oppongono o mettono in discussione quello che proponi? Tipo quando si rifiutano di fare il lavoro – può essere qualcosa di utile? Forse è proprio quello che rende un corso più vivo – il dibattito. Forse è per questo che a volte è importante non assecondare gli studenti – essere ogni tanto un “cattivo insegnante”?
AL: Sì, assolutamente. Credo che la resistenza degli studenti sia preziosissima. L’insegnamento è un processo dinamico, non semplicemente la trasmissione di conoscenze. La resistenza mi costringe, come insegnante, a riesaminare le mie stesse ipotesi e il mio approccio pedagogico. Mi obbliga a riflettere sul fatto che potrei semplicemente stare rinforzando strutture normative senza metterle veramente in discussione. Quando ho iniziato a insegnare nel 2007, mi sono stati assegnati studenti del primo anno per due anni, il che mi ha dato l’opportunità di introdurre i fondamenti del progetto. Gli esercizi erano piccoli compiti settimanali, una struttura che mi ha permesso di bilanciare l’insegnamento con il lavoro di dottorato. Ha creato uno spazio riflessivo, dove potevamo confrontarci settimanalmente con i principi fondamentali della progettazione. La resistenza di alcuni studenti, che si chiedevano se studiare architettura fosse davvero la scelta giusta, mi ha ricordato i miei anni critici in architettura negli anni ’90 – quegli anni in cui si “uccideva l’autore”, si lasciava che tutto emergesse dall’astrazione digitale e si chiamava architettura anche ciò che spesso somigliava a pixel art. In quel contesto, la libertà intellettuale – e la resistenza che talvolta genera – può essere tanto preziosa quanto spingere gli studenti a uscire dalla loro zona di comfort senza mettere subito in discussione il senso di fondo. Ho apprezzato l’apertura alla sperimentazione durante i miei studi, ma una volta finita la scuola di architettura, mi sono reso conto di quanto fossi impreparato alle esigenze pratiche di uno studio professionale.
VN: Hai dovuto iniziare a studiare architettura dopo la laurea.
AL: Esattamente.
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Valentina Noce – Architect and PhD Candidate, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano.
Andreas Lechner – Associate Professor, Institute of Design and Building Typology, Graz University of Technology. -
Designing transitions: transdisciplinary urban and territorial pedagogies
Konstantinos Venis in conversation with Nancy Couling and Tommaso Pietropolli.
KV: The selection criteria were the characteristics and curriculum of your programme. It is a transdisciplinary joint programme focusing on design as a tool of synthesis in a transdisciplinary environment, integrating urban studies, postcolonial thought, the Anthropocene, and interdisciplinary approaches in site-specific work across urban and territorial scales. It actively collaborates with communities and local actors to deepen the understanding of ecological, cultural, and urban interconnections. This unique programme aligns with my interest in academic synergy and transdisciplinary exchange. Could you share the vision behind its creation and how it synthesises urban studies with cultural and ecological dimensions?
NC: Tommaso, given your expertise, you could discuss design as knowledge production. The programme arose from a need identified by participants who felt previous architecture programmes lacked interdisciplinarity to address social and ecological challenges. Graduates sought tools and skills to understand why interdisciplinarity is necessary.
TP: Since its foundation, the programme has had multiple ambitions. We wanted not only to teach a pre-defined curriculum, but also to critically engage with disciplinary limits. We lacked a framework for addressing evolving regional urbanisation, which necessitated the expansion of a postgraduate urban design programme at ETH into a broader urban and territorial design programme.
The second ambition was to equip researchers, designers, and professionals with the skills they lacked in their professional lives. Many graduates in architecture, landscape architecture, or urban design found themselves without a comprehensive, interdisciplinary approach. The programme seeks to address this gap by providing essential tools for those involved in spatial transformation.
The programme is also a space for research, tackling new issues each semester and creating a valuable body of experience. Social and ecological aspects, introduced by the two directors of the programme, Paola Vigano and Milica Topalovic, were considered essential for any spatial, urban and transitional reflection. This underscores the intrinsic need for multidisciplinarity.NC: As you mentioned, Tommaso, it is a design-based programme. We deeply believe that design can bring these different aspects together. Only through design – working on different issues through design – can we produce new knowledge and new ways of working.
KV: What is the course structure and how do its formats contribute to achieving the programme’s educational objectives? Could you provide an overview of the MAS ETH EPFL Urban and Territorial Design programme?
TP: This is the first joint MAS programme between the two polytechnics in Switzerland. Establishing it took considerable effort. Our students already hold diplomas in architecture, landscape architecture or urban planning, making their one-year full-time engagement highly intensive. We have two parallel semesters. Students start at EPFL in the autumn and move to Zurich in the spring. Each semester is structured around a design studio, comprising 15 to 17 credits out of a total of 30. A series of theoretical and practical courses complement the design studio and are adapted each semester according to the theme of the studio. The structure is flexible and evolves each year. Professors involved in the courses also participate in studio critiques, reviews and debates, ensuring holistic engagement.
NC: This structure allows each school to explore areas of its own expertise. While semesters differ in content, their structure remains consistent. Alongside the design studio, we offer theory-based “courses” and public debates called “sessions.” At ETH, agroecology, a knowledge pool developed by Milica Topalovic, is integrated into the curriculum. EPFL explores new and existing topics, offering students insights from two robust research programmes.
KV: How does the programme transcend traditional urban design boundaries, integrating advancements in urban theory, landscape, ecology, and civil environmental engineering? How are transdisciplinary approaches incorporated into research and practice, and how are results disseminated?
NC: At ETH, courses align with design research questions. We have a limited number of courses, such as Urban Ecology, where an ecologist tunes lessons to student projects. Our postgraduate status allows more flexibility than other ETH master’s programmes, enabling optimal timing and integration of lectures into studio development. Previously, we offered an intensive landscape course focusing on plant functions.
TP: We manage multidisciplinarity through collaboration with external disciplines, particularly urban sociology. Social scientists teach architectural students social science tools for analysing contemporary spaces. We also integrate civil engineering, covering life cycle assessment, circular economy, and material circularity. Ecologists contribute specific expertise. In both Zurich and EPFL, we focus learning on concrete case studies. Institutions present real-world problems for students to address. For example, institutions in Zurich have driven our focus on agroecology, while in Lausanne we work with authorities in the Greater Geneva area to explore regional concerns. This fosters transdisciplinary work with local actors and institutions.
KV: How do programme objectives align with teaching modalities? How do structure, tools, and pedagogy reflect the curriculum?
NC: The design programme incorporates analytical tools. In Tommaso’s semester, for instance, circular system thinking was introduced as an analogue design tool. Students apply knowledge gained from courses directly to design projects. We favour small group work (9-10 students) to ensure high-quality, comprehensive projects reflecting our holistic approach. We also integrate tools like video. Experts provide workshops on working with video, engaging with local communities, and landscape representation. These inputs inspire students and enhance their project representation.
TP: The full-time structure immerses students in intensive learning. They engage 15-18 weeks per semester, spending 8-hour days at EPFL and Zurich. Two to three days weekly focus on design studios, while interdisciplinary courses occupy the remainder. This ensures continuous integration of methods from social sciences and systems thinking into design studios. Students learn and apply concepts simultaneously, rather than undergoing a separate preliminary analysis phase.
KV: How do you guide students during revisions? Are instructions specific, or do they have freedom to develop their own projects?
TP: While structured, the programme allows room for individual expression. We define the design studio theme, but groups select their focus. We meet students 2-3 times weekly for guidance. Rather than a problem-solving approach, we follow a research-by-design methodology—posing questions and guiding projects toward development.
NC: We emphasise open accessibility. All projects, results, and coursework are publicly available on our website. This allows students to present their work to external experts.
KV: What kind of physical space is used for didactic activities? Does space choice influence learning objectives? Also, how does this programme redefine architects’ dynamic roles in addressing global challenges by promoting a deeper understanding of ecological and cultural urban contexts?
NC: Swiss universities, despite their scale, face space constraints. As a small programme, our students share space with ETH master’s students, promoting cross-interaction. While some challenges exist, exposure to diverse academic activities enhances learning. One innovative space, the Design and Dialogue Studio, exemplifies flexible, non-hierarchical pedagogy.
TP: Space was an initial challenge, but we prioritised having a dedicated laboratory. At EPFL, students have their own space, fostering focus and exchange. Research requires specific conditions, and our space supports this need.
NC: Testimonials from alumni indicate the programme transforms perspectives. Graduates enter architecture roles, pursue PhDs, or shift to landscape architecture or urban and territorial design. Many seek change due to frustration with conventional education and professional limitations. Addressing the evolving role of architects in social and ecological transition is a crucial aspect of our approach.
KV: Despite global crises demanding new educational responses, the subject of design research, design as knowledge production, geographical or ecological urbanism remain underemphasised in architecture schools.
TP: Our approach is not opposed to existing contexts but aims to refine what is relevant within architecture, urban, and territorial design. Addressing social and ecological concerns is fundamental, but our unique focus is leveraging design practice to produce situated, context-specific knowledge.
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Progettare le transizioni: pedagogie
urbane e territoriali transdisciplinari
Konstantinos Venis in conversazione con Nancy Couling e Tommaso Pietropolli.
KV: I criteri di selezione sono stati le caratteristiche e il curriculum del vostro programma. Si tratta di un programma congiunto transdisciplinare che considera il design come strumento di sintesi in un ambiente transdisciplinare, integrando studi urbani, pensiero postcoloniale, Antropocene e approcci interdisciplinari al lavoro sito-specifico su scala urbana e territoriale. Collabora attivamente con comunità e attori locali per approfondire la comprensione delle interconnessioni ecologiche, culturali e urbane. Questo programma unico è in linea con il mio interesse per la sinergia accademica e lo scambio transdisciplinare. Potreste condividere la visione alla base della sua creazione e spiegare come sintetizza gli studi urbani con le dimensioni culturali ed ecologiche?
NC: Tommaso, data la tua esperienza, potresti parlare del design come produzione di conoscenza. Il programma è nato da un’esigenza espressa dai partecipanti, i quali ritenevano che i precedenti programmi di architettura mancassero di interdisciplinarità per affrontare le sfide sociali ed ecologiche. I laureati cercavano strumenti e competenze per comprendere perché l’interdisciplinarità fosse necessaria.
TP: Fin dalla sua fondazione, il programma ha avuto molteplici ambizioni. Non volevamo solo insegnare un curriculum predefinito, ma anche confrontarci criticamente con i limiti disciplinari. Mancava un quadro di riferimento per affrontare l’evoluzione dell’urbanizzazione regionale, il che ha portato all’espansione di un programma post-laurea in progettazione urbana all’ETH in un programma più ampio di progettazione urbana e territoriale. La seconda ambizione era fornire a ricercatori, progettisti e professionisti le competenze che mancavano nelle loro esperienze lavorative. Molti laureati in architettura, architettura del paesaggio o urbanistica si ritrovavano senza un approccio comprensivo e interdisciplinare. Il programma cerca di colmare questa lacuna, fornendo strumenti essenziali a chi è coinvolto nella trasformazione dello spazio. Il programma è anche uno spazio di ricerca, affronta nuove tematiche ogni semestre e crea un prezioso corpo di esperienze. Gli aspetti sociali ed ecologici, introdotti dalle due direttrici del programma, Paola Viganò e Milica Topalovic, sono considerati essenziali per ogni riflessione spaziale, urbana e transizionale. Questo sottolinea il bisogno intrinseco di multidisciplinarietà.
NC: Come dicevi, Tommaso, è un programma basato sul design. Crediamo profondamente che il design possa riunire questi diversi aspetti. Solo attraverso il design – lavorando su temi diversi con il design – possiamo produrre nuova conoscenza e nuovi modi di lavorare.
KV: Qual è la struttura del corso e in che modo i suoi formati contribuiscono a raggiungere gli obiettivi educativi del programma? Potreste fornire una panoramica del programma MAS ETH EPFL Urban and Territorial Design?
TP: È il primo programma MAS congiunto tra i due politecnici svizzeri. È stato necessario un grande sforzo per istituirlo. I nostri studenti sono già laureati in architettura, architettura del paesaggio o urbanistica, e il loro impegno a tempo pieno per un anno è molto intensivo. Abbiamo due semestri paralleli. Gli studenti iniziano all’EPFL in autunno e si spostano a Zurigo in primavera. Ogni semestre è strutturato intorno a uno studio di progettazione, che vale 15-17 crediti su un totale di 30. Una serie di corsi teorici e pratici completano lo studio di progettazione e vengono adattati ogni semestre in base al tema dello studio. La struttura è flessibile ed evolve ogni anno. I professori coinvolti nei corsi partecipano anche alle critiche, revisioni e dibattiti in studio, garantendo un coinvolgimento olistico.
NC: Questa struttura consente a ciascuna scuola di approfondire le proprie aree di competenza. Sebbene i contenuti dei semestri differiscano, la struttura rimane coerente. Oltre allo studio di progettazione, offriamo corsi teorici e dibattiti pubblici chiamati “sessioni”. All’ETH, l’agroecologia – un campo di ricerca sviluppato da Milica Topalovic – è integrata nel curriculum. L’EPFL esplora nuovi e già esistenti argomenti, offrendo agli studenti spunti da due solidi programmi di ricerca.
KV: Come trascende il programma i confini tradizionali della progettazione urbana, integrando progressi nella teoria urbana, nel paesaggio, nell’ecologia e nell’ingegneria ambientale civile? Come vengono incorporati gli approcci transdisciplinari nella ricerca e nella pratica, e come vengono diffusi i risultati?
NC: All’ETH, i corsi si allineano alle domande di ricerca del progetto di design. Offriamo pochi corsi, ad esempio Ecologia Urbana, dove un ecologo adatta le lezioni ai progetti degli studenti. Il nostro status post-laurea consente maggiore flessibilità rispetto ad altri programmi master ETH, permettendo un’integrazione ottimale delle lezioni nello sviluppo dello studio. In passato abbiamo offerto un corso intensivo di paesaggio focalizzato sulle funzioni delle piante.
TP: Gestiamo la multidisciplinarità collaborando con discipline esterne, in particolare la sociologia urbana. I sociologi insegnano agli studenti di architettura strumenti delle scienze sociali per analizzare gli spazi contemporanei. Integriamo anche l’ingegneria civile, trattando temi come il ciclo di vita, l’economia circolare e la circolarità dei materiali. Gli ecologi contribuiscono con competenze specifiche. A Zurigo e all’EPFL ci concentriamo su casi di studio concreti. Le istituzioni presentano problemi reali che gli studenti affrontano. A Zurigo, per esempio, le istituzioni hanno guidato il nostro focus sull’agroecologia, mentre a Losanna collaboriamo con le autorità dell’area del Grande Ginevra per esplorare questioni regionali. Questo promuove un lavoro transdisciplinare con attori e istituzioni locali.
KV: In che modo gli obiettivi del programma si allineano con le modalità didattiche? Come si riflettono la struttura, gli strumenti e la pedagogia sul curriculum?
NC: Il programma di design integra strumenti analitici. Nel semestre di Tommaso, ad esempio, è stato introdotto il pensiero sistemico circolare come strumento analogico di progettazione. Gli studenti applicano direttamente ai progetti le conoscenze acquisite nei corsi. Favoriamo il lavoro in piccoli gruppi (9-10 studenti) per garantire progetti completi e di alta qualità, in linea con il nostro approccio olistico. Integriamo anche strumenti come il video. Esperti tengono workshop sull’uso del video, l’interazione con le comunità locali e la rappresentazione del paesaggio. Questi input ispirano gli studenti e arricchiscono la rappresentazione dei progetti.
TP: La struttura a tempo pieno immerge gli studenti in un apprendimento intensivo. Partecipano per 15-18 settimane a semestre, con giornate di 8 ore tra EPFL e Zurigo. Due o tre giorni a settimana sono dedicati agli studi di progettazione, mentre i corsi interdisciplinari occupano il resto. Questo garantisce un’integrazione continua dei metodi delle scienze sociali e del pensiero sistemico nei progetti. Gli studenti apprendono e applicano i concetti simultaneamente, anziché seguire una fase preliminare di analisi separata.
KV: Come guidate gli studenti durante le revisioni? Le istruzioni sono specifiche o c’è libertà nello sviluppo dei progetti?
TP: Il programma è strutturato ma lascia spazio all’espressione individuale. Definiamo il tema dello studio di progettazione, ma i gruppi scelgono il proprio focus. Incontriamo gli studenti 2-3 volte a settimana per dare indicazioni. Non seguiamo un approccio di problem solving, ma una metodologia di ricerca attraverso il design: poniamo domande e guidiamo i progetti verso il loro sviluppo.
NC: Valorizziamo l’accessibilità aperta. Tutti i progetti, risultati e materiali del corso sono pubblicamente disponibili sul nostro sito web. Questo permette agli studenti di presentare il loro lavoro anche a esperti esterni.
KV: Che tipo di spazio fisico viene usato per le attività didattiche? La scelta dello spazio influisce sugli obiettivi formativi? Inoltre, in che modo questo programma ridefinisce il ruolo dinamico degli architetti nell’affrontare le sfide globali, promuovendo una comprensione più profonda dei contesti urbani ecologici e culturali?
NC: Le università svizzere, nonostante la loro dimensione, devono affrontare limitazioni di spazio. Essendo un programma piccolo, i nostri studenti condividono gli spazi con i master ETH, promuovendo l’interazione trasversale. Anche se esistono delle sfide, l’esposizione a diverse attività accademiche arricchisce l’apprendimento. Uno spazio innovativo è lo Studio Design and Dialogue, che incarna una pedagogia flessibile e non gerarchica.
TP: Lo spazio è stato una sfida iniziale, ma abbiamo dato priorità a un laboratorio dedicato. All’EPFL, gli studenti hanno uno spazio proprio, che favorisce la concentrazione e lo scambio. La ricerca richiede condizioni specifiche, e il nostro spazio le supporta.
NC: Le testimonianze degli ex studenti indicano che il programma cambia prospettiva. I laureati proseguono in architettura, intraprendono dottorati o si orientano verso il paesaggio o il design urbano e territoriale. Molti cercano un cambiamento, frustrati dall’educazione convenzionale e dai suoi limiti professionali. Affrontare il ruolo in evoluzione degli architetti nella transizione sociale ed ecologica è un aspetto fondamentale del nostro approccio.
KV: Nonostante le crisi globali richiedano nuove risposte educative, temi come la ricerca progettuale, il design come produzione di conoscenza, l’urbanismo geografico o ecologico rimangono poco enfatizzati nelle scuole di architettura.
TP: Il nostro approccio non è in opposizione ai contesti esistenti, ma mira a raffinare ciò che è rilevante all’interno dell’architettura, del design urbano e territoriale. Affrontare le questioni sociali ed ecologiche è fondamentale, ma il nostro focus unico è sfruttare la pratica progettuale per produrre conoscenza situata e specifica al contesto.
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Konstantinos Venis – Architect and research-based designer.
Nancy Couling – Senior Researcher, Coordinator MAS (Joint Master of Advanced Studies)in Urban and Territorial Design, ETH Zurich; Associate Professor, Bergen School of Architecture.
Tommaso Pietropolli – Architect and senior researcher; Coordinator MAS (Joint Master of Advanced Studies) in Urban and Territorial Design.Joint program Master of Advanced Studies (MAS ETH EPFL) is an academic synergy exploring design as a tool for synthesis in an expanded environment of transdisciplinary exchange. The curriculum brings together urban studies, postcolonial thought and the Anthropocene, and offers a deeper understanding of the cultural and ecological dimensions of territories, urban and landscape ecology, sustainable construction and low-carbon mobility. The design studio underlines the importance of interdisciplinarity, site-specific work at all urban-territorial scales and engagement with communities, local actors, NGOs and governance bodies.
Programme Directors: Professor Milica Topalović (ETH Zurich D-ARCH, Landscape and Urban Studies, Architecture of Territory) and Professor Paola Viganò (EPFL ENAC-Habitat Research Center, Laboratory of Urbanism). -
Teaching architecture in a fragmented world
Luigiemanuele Amabile in conversation con Wolfgang Brune.
LA: What issues in the built and natural environment should an architectural design studio address today?
WB: The question is related to all the well-known general issues that we have to deal with today: Sustainability, recycling, emissions reduction, resource conservation, social responsibility and so on. That’s very true. But I think we should keep it simple: I think at the heart of the profession is the design of exceptional buildings that can be used for a long time and are accepted as valuable to people and the city for a long time. So in my teaching, the first thing is to try to ignite as much joy and fire as possible for our wonderful discipline. But then I try to discuss with them the idea of an urban module, a kind of urban brick. In Europe, urbanity is associated with the core cities and copied in so many ways on the outskirts. Suburbs and cities have the same idea, but completely different structures. In both urban and suburban areas, the motives are similar, but the approaches are so different. The separation of the two leads to enormous disruptions and distortions. We stroll in city centres, but we shop in discount stores, big cubes with big car parks in undefined areas of the city. We work in service areas, play sport in the countryside and live behind garden gates. Does this separation make sense? The question is not new. It has always motivated planners and investors to come up with special and not-so-special answers. I really think we need to reinvent the urban module, perhaps the townhouse or the urban hybrid.
LA: How should a design studio be organised and what tools should it use to achieve these goals?
WB: It’s a very good question and I don’t know if I can really answer it briefly. Maybe it’s just the analysis of the site and the task… But in the end it’s much more complex, I’m afraid. The city, the spaces and a house or a module are all a reflection of our thinking. How do we think about living spaces, squares and townhouses and so on? We are trying to develop an idea of a liveable built environment, a way of living together in the city and in the neighbourhood. The spatial organisation, the sculptural design and the sensual and technical materialisation of this idea is our goal. A particular focus of the work is to create an obvious connection between social and sculptural ideas, spatial and structural conception, principles of organisation, structural conception, materialisation and structural design. All topics will be accompanied by impulse lectures in the seminar. This all sounds very general. But I really try to touch on each of these themes. In my experience, one student may be more concerned with one topic, while another may be more inspired by another. But they all end up discussing the same issues.
LA: How much does the physical space of the design studio influence the pedagogical experience, and why?
WB: Oh, I think a lot! We have the opportunity to teach in a real studio where all the classes meet and come together. So I am afraid that our students learn more from each other than from us professors. What the hell! I love working with lots of books and trying to convince the students that the theoretical implications of a task or project are at least as interesting as the design and construction. An excellent library is a gift!
LA: Can the study of architecture as “knowledge of form” still be considered a discipline in its own right?
WB: Of course it can! That’s definitely the case! And architecture is so much more than that. In the end, it’s a way of spending your life, with all your perceptions, thoughts and skills.
LA: What have we inherited from the schools of thought that shaped the disciplinary teaching of architecture in the last century? Are they still relevant today in such a different and profoundly changed context?
WB: I am deeply convinced that they are our behavioural continuum. We tend to think that we are inventors, that we can create anything out of nothing. This is a misconception – at best we find something. At best, we manage to create a new vision. That’s about it. So please be kind and celebrate all the knowledge of the incredible masters of the past. They discussed the same subjects in different circumstances.
LA: From a pedagogical point of view, how important is the student’s freedom to manage his or her own learning process in architecture?
WB: Another very good question. And a very personal one. A teacher or professor is a teacher, not a judge. I trust in the inspiration of all people. In my experience, students are like a sponge that absorbs everything. So don’t guide them too much, accompany them and encourage them as much as possible.
LA: Architectural education now shapes not only architects as practitioners and designers, but also other spatial practices that move across borders with other disciplines, such as the hard sciences, anthropology or art. What role do you think architectural design education, as a discipline in its own right, with its tools and codes, can play in shaping these hybrid figures? And what is their specificity?
WB: Like many of us, I am very much involved with contemporary art. And I often use examples of art in my teaching. I am convinced that it is worth looking beyond our narrow disciplinary boundaries. Also to develop a self-critical attitude that shows us how we as architects perceive the world and how we are perceived from the outside. I believe that this is part of the architect’s ability to speak, to see himself from a different point of view. To give an example: For several years now, my thoughts and questions have revolved around the phenomenon of our ability to ascribe subjective qualities to objective environments. Take art, for example! According to my observations, we are so absorbed by spaces that they not only amaze and excite us, but they even become subjective projections in themselves, which we visit again and again in order to encounter that very projection. Meeting them is as if they were approaching us. They seem to communicate with us so powerfully and in such abundance that they appear to us as beings. This is what I call consistency of being. But consistency also means the intensity and independence with which spaces act as symbols. This raises questions about the autonomy of the spatial environment and the possibility of a world beyond us. How is it possible that things we perceive as our environment appear to us as subjects outside ourselves? What is the basis of their effect, their meaning? My next questions, then, are devoted to the conceptual scope of the auratic, if that is the right term. The aim is to structure the questions that arise in this context. This attempt is motivated by the fascination of spatial phenomena in architecture and art – their power to affect us. It is based on the hope that perception and thought will inspire us to ask these and many other questions. And it’s based on the hope that this way of working with specific tasks will inspire our students.
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L’insegnamento del progetto
per un mondo frammentato
Luigiemanuele Amabile in conversazione con Wolfgang Brune.
LA: Quali questioni legate all’ambiente costruito dovrebbero essere affrontate oggi da un laboratorio di progettazione architettonica?
WB: La domanda richiede una risposta generale che riguarda tutte le problematiche con cui ci confrontiamo nella contemporaneità: sostenibilità, economia circolare, riduzione delle emissioni, conservazione delle risorse, responsabilità sociale e molto altro. Tutto ciò è essenziale, senza dubbio. Tuttavia, credo sia opportuno mantenere un approccio chiaro e diretto: al centro della nostra professione c’è il progetto di edifici di grande qualità, capaci di durare nel tempo e che siano percepiti come valore aggiunto da parte dei cittadini e ben integrati nel tessuto delle città. Nel mio approccio all’insegnamento, il primo obiettivo è trasmettere agli studenti entusiasmo e passione per la nostra disciplina. Solo successivamente li incoraggio a riflettere su questioni legate all’architettura e alla città. Ad esempio, trovo centrale il concetto di “modulo urbano”, assimilabile a un mattone con cui si costruisce il tessuto delle città. In Europa l’idea di urbanità è generalmente associata ai centri storici, ma si riscontra anche in forme inconsuete nelle aree periferiche. Entrambi i contesti spesso originano da motivazioni e aspettative simili, ma si caratterizzano per strutture fisiche radicalmente diverse e non comunicanti. Tale segregazione genera profonde discontinuità e squilibri: passeggiamo nei centri storici ma facciamo compere nei grandi distributori ubicati ai margini della città; lavoriamo nei complessi direzionali, facciamo sport nelle aree verdi ma viviamo entro i confini chiusi delle villette con giardino. Questa separazione netta è davvero necessaria? Non si tratta di una questione non nota. Da sempre pianificatori e portatori di interesse sono stimolati a fornire soluzioni più o meno originali a questo problema. A mio avviso, è giunto il momento di ripensare, attraverso il modulo urbano, questi luoghi ragionando sul tipo della townhouse e concependo edifici ibridi urbani, per ricucire le fratture esistenti e rigenerare in modo coerente l’ambiente costruito.
LA: Come dovrebbe essere organizzato uno laboratorio di progettazione e quali strumenti dovrebbe utilizzare?
WB: Si tratta di una domanda molto complessa e non so se riuscirò a rispondervi brevemente. Un laboratorio potrebbe limitarsi all’analisi del lotto di progetto e a una risposta attraverso un programma funzionale, ma è molto più complesso, temo. La città, gli spazi e una casa o un isolato sono riflesso del nostro modo di pensare. Come concepiamo gli spazi abitativi, le piazze, le townhouse e così via? Cerchiamo di sviluppare un’idea di ambiente costruito vivibile, in cui sia possibile coabitare sia a scala della città che di quartiere. Il nostro obiettivo è l’organizzazione spaziale, l’espressione scultorea della forma architettonica e la materializzazione concreta, tecnologica e sensoriale di questa idea. Un aspetto fondamentale del nostro lavoro è costruire un legame tangibile fra aspetti sociali e concezione formale, tra spazio e struttura e, tra principi organizzativi, materialità e progetto tecnologico. Tutti i temi vengono affrontati durante il corso attraverso lezioni specifiche. Tutto ciò che ho detto può sembrare molto generico, ma cerco davvero di affrontare ciascuno di questi aspetti. Secondo la mia esperienza, se uno studente tende a concentrarsi su un tema, un altro ne è ispirato in modo diverso, ma alla fine tutti discutono gli stessi argomenti.
LA: In che modo lo spazio fisico in cui si svolge il laboratorio di progettazione incide sull’esperienza pedagogica?
WB: Moltissimo. Abbiamo la possibilità di insegnare in uno studio vero e proprio, dove si incontrano e si mescolano gli studenti di tutti i semestri. Quindi credo fortemente che i nostri studenti imparino più gli uni dagli altri che da noi docenti. E va benissimo così! Trovo stimolante lavorare utilizzando molti libri diversi e cerco di convincere gli studenti che la teoria che è possibile rintracciare dietro ogni incarico sia interessante quanto il progetto e la sua costruzione. Una buona biblioteca è un dono.
LA: Lo studio dell’architettura intesa scienza della composizione e della forma può ancora essere considerata una disciplina a sé stante?
WB: Assolutamente sì! Ma l’architettura è molto di più. È un modo di trascorrere la vita, fatto di percezioni, pensieri, abilità.
LA: Cosa ereditiamo dalle scuole di pensiero che hanno plasmato l’insegnamento disciplinare dell’architettura nel secolo scorso?
WB: Sono profondamente convinto che il passato abbia contribuito a definire i nostri comportamenti e che dobbiamo continuare su questa strada. Tendiamo a pensare di poter ancora inventare e creare qualsiasi cosa dal nulla. Si tratta di un equivoco: nella migliore delle ipotesi riusciamo a scorgere qualcosa; se va bene, riusciamo a produrre nuove visioni. Questo è il nostro compito. Di conseguenza invito tutti a celebrare la conoscenza che abbiamo ereditato dagli incredibili maestri del passato: hanno affrontato le nostre stesse tematiche, ma in circostanze diverse.
LA: Quanto è significativa, in termini pedagogici, la libertà dello studente di gestire il proprio processo di apprendimento in architettura?
WB: Un’altra domanda complessa, e anche molto personale. Un professore è una guida che accompagna, non si comporta come un giudice. Confido nell’ispirazione innata di ogni individuo. Per esperienza, riconosco che gli studenti si comportano come spugne che assorbono qualsiasi stimolo. Pertanto, credo sia più efficace non dirigere eccessivamente il loro percorso, bensì accompagnarli e incoraggiarli il più possibile.
LA: L’insegnamento dell’architettura oggi produce non solo architetti, ma anche figure ibride che si muovono ai confini con altre discipline, come le scienze dure, le scienze umane e le arti. Quale ruolo può svolgere l’insegnamento del progetto di architettura – in quanto disciplina autonoma, dotata dei propri strumenti e codici – nel plasmare questi profili ibridi? E quale ne è la specificità?
Come molti miei colleghi, ho un rapporto stretto con l’arte contemporanea e spesso utilizzo esempi del campo durante le mie lezioni. Sono convinto che valga la pena guardare oltre i confini ristretti della nostra disciplina, anche per sviluppare un atteggiamento critico nei confronti di noi stessi che ci riflettere su come in qualità di architetti percepiamo il mondo e come gli altri ci percepiscono. Questo aspetto fa parte della capacità dell’architetto di comunicare, di osservare se stesso da una prospettiva laterale. A titolo esemplificativo, negli ultimi anni le mie riflessioni si sono concentrate sulla capacità sviluppata dagli architetti di attribuire qualità soggettive ad ambienti oggettivi, come avviene nell’arte. In base a quanto ho osservato, gli spazi ci assorbono talmente tanto da non solo stupirci ed emozionarci, ma da diventare essi stessi proiezioni soggettive che rivisitiamo continuamente per incontrare nuovamente quella stessa sensazione. Avvicinarci a essi ci consente di apprezzare la loro presenza, comunicando con noi in modo così potente e traboccante da apparirci come entità reali. Definisco questa esperienza “consistenza dell’essere”: una condizione in cui gli spazi agiscono come simboli di grande intensità e indipendenza. Tutto ciò solleva interrogativi sull’autonomia e la singolarità dello spazio e sulla possibilità di un mondo oltre il nostro. Come è possibile che elementi percepiti del nostro ambiente ci appaiano come entità esterne a noi? Qual è la base del loro effetto, qual è il fondamento del loro significato? Credo che questi interrogativi intercettino il concetto di aura, qualora questo termine risulti appropriato. Il mio obiettivo è strutturare le domande che emergono da questi ragionamenti guidati dalla fascinazione per i fenomeni spaziali nell’architettura e nell’arte e dalla loro capacità di coinvolgimento emotivo. Confido che le percezioni e i pensieri che ne derivano stimolino i nostri studenti a porsi simili e molte altre domande e che questo approccio, basato su temi certamente complessi, possa rappresentare per loro una fonte di ispirazione._______________________________________________________________________________________________
Luigiemanuele Amabile – Architect and PhD, research fellow of the project DT2 (UdR Università degli Studi di Napoli Federico II).
Wolfgang Brune – Architect and professor of Planning and Construction at Hochschule Biberach. -
The studio in numbers
The role of the design studio within architecture schools is characterized by a dual identity. On one hand, it is a foundational and strongly constitutive element of the educational offering for students, who find in the laboratory the opportunity to engage and challenge themselves with the discipline of design. The design laboratory, in fact, defines a specific educational opportunity particularly characteristic for the construction of the figure of the architect-designer, but not only, within the broader teaching delivered in laboratory form which, as a prerogative of architecture universities, is not exclusively linked to architectural design, but also to urban planning, restoration, and representation. On the other hand, in its multidisciplinary configuration, it can, and must, include various contributions in terms of university credits (CFU) from scientific-disciplinary sectors (SSD), even those not strictly related to the discipline of design. These two aspects, which are two sides of the same coin, characterize the design studio both as a constant within architecture curricula and as a variable, as its identity and actual implementation are linked to many possible alternatives, including structuring into different modules related to various SSDs as well as various organizational and didactic aspects.
The general survey carried out with reference to design studios provides an overall picture of the current situation mainly from the quantitative point of view – represented through the reworking of data in some graphs – highlighting the most characteristic values and their relationship with the conduct of teaching. Although it is not possible to assess these results by offering a judgment on the quality of teaching, it is nevertheless possible to establish a base of information suitable for developing some considerations on the subject. The data collection was assembled using the curricula currently published online on the individual pages of universities and schools, mainly through reading the most updated and available documents at the time of this analysis. In particular, the curricula of bachelor’s degree courses related to the degree class in Architectural Sciences (L-17) and those of master’s and single-cycle master’s degree courses for the master’s degree class in Architecture and Building Engineering – Architecture (LM-4) were taken into consideration. For each year of the course, all the studios offered were reported, identified with title, total number of credits, semester or annual implementation. From its early stages, the study encountered some issues, mainly related to the vastness of the field of investigation and the specificity related to the various schools or curricula, or even to individual studios. The difficulties posed by these obstacles laid the foundation for defining some limits and guidelines for the collection and systematization of information.
The issue of vastness is evidently linked to the possibly very large number of data collected and their difficult harmonization. For this reason, the field of investigation was limited to a representative selection of Italian universities and architecture schools, including: the Politecnico di Milano, the Politecnico di Torino, the Università Iuav di Venezia, the Università degli Studi di Napoli “Federico II”, the Università degli Studi Roma Tre, Sapienza Università di Roma, the Università degli Studi di Firenze, and finally, the Politecnico di Bari. For some sections of the graphs, moreover, data from some non-Italian universities were introduced, as will be described below. As anticipated, within this selection of universities, attention is paid to the various curricula – including, when present, the double version in Italian and English – and their respective studios, which are described according to their main unit of measurement, that is, the number of credits. Through the unit of measurement of credits, in fact, it is possible to quantify the weight of the studios in relation to the total of the curricula and to delve into the quantities related to the specific modules of the various scientific-disciplinary sectors.
Regarding the issue of specificity, some difficulties were encountered related to the variability and individuality of some curricula and their studios. This differentiation during the investigation was managed by adopting a general principle of simplification that sought to focus as much as possible on the importance of detecting the real presence and placement of design laboratories within the educational path. For example, in the case of thematic or optional studios that presented differences related to the choice of the individual studio – such as the allocation of a variable number of credits to the various scientific-disciplinary sectors – reference was made to data whose presence in the curriculum was certain, regardless of individual student choices, and omitting information solely related to the selection of one or more laboratories.
A particularly important aspect is related to the criterion for selecting design studios within the broader group of laboratories, beyond the direct reference to the course title. For this purpose, it was decided to use as a selection criterion the presence of credits related to ICAR/14 (Architectural and Urban Composition), ICAR/15 (Landscape Architecture), and ICAR/16 (Interior Architecture and Exhibition Design). The identification of these scientific-disciplinary sectors and the related credits, in fact, allows for the separation of laboratories with a more design-oriented matrix from those more directly related to other disciplines, such as construction technique laboratories or conservation laboratories. The credits related to these “designing” scientific-disciplinary sectors, therefore, were separated and counted separately, in order to evaluate their weight within the design studios. In summary, therefore, some main operations were carried out, each related to the extraction of a specific category of data:
- the first operation was descriptive of studio teaching, through the identification of all studios offered within the various curricula and the reading of some main characteristics including the title, total number of credits, semester or annual configuration, involved scientific-disciplinary sectors. This allowed for a survey of laboratory teaching within architecture schools and its weight in the educational offering, thanks to the comparison with the total number of credits of the entire curriculum;
- the second operation was discrete regarding design studios based on the presence of credits related to the scientific-disciplinary sectors ICAR/14, 15, and 16. In this sense, the total number of credits offered through design studios was detected with the possibility of measuring their relationship with others;
- the third operation was analytical regarding the credits ICAR/14, 15, and 16, in order to define their general weight compared to credits related to other scientific-disciplinary sectors, within the general framework defined by the structuring of studios as integrations of different modules.
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Il laboratorio in numeri
Il ruolo del laboratorio di progetto all’interno delle scuole di architettura è caratterizzato da una duplice identità. Da un lato, è elemento fondante e fortemente costitutivo dell’offerta formativa per lo studente, che trova nel laboratorio la possibilità di confrontarsi e sfidarsi con la disciplina del progetto. Il laboratorio di progetto, infatti, definisce una precisa occasione formativa particolarmente caratteristica per la costruzione della figura dell’architetto progettista, ma non solo, all’interno della più ampia didattica erogata in forma laboratoriale che, come prerogativa delle università di architettura, non è esclusivamente legata alla progettazione architettonica, ma anche all’urbanistica, al restauro, alla rappresentazione. Dall’altro lato, nella sua configurazione multidisciplinare può, e deve, includere diversi apporti in termini di crediti formativi universitari (CFU) da settori scientifico-disciplinari (SSD), anche non strettamente legati alla disciplina del progetto. Questi due aspetti, che sono lati della stessa medaglia, caratterizzano il laboratorio di progetto sia come una costante all’interno dei piani di studio in architettura, sia come una variabile, in quanto la sua identità e il suo effettivo svolgimento sono legati a molte possibili alternative, tra cui la strutturazione in diversi moduli riferiti a vari SSD oltre che vari aspetti organizzativi e didattici.
La ricognizione generale effettuata con riferimento ai laboratori di progetto restituisce un’immagine complessiva della situazione attuale principalmente sotto il punto di vista delle quantità – rappresentate grazie alla rielaborazione dei dati in alcuni grafici – ed evidenziandone i valori più caratteristici e la loro relazione con lo svolgimento della didattica. Nonostante non sia possibile valutare tali risultati offrendo un giudizio di qualità della didattica, è possibile tuttavia costituire una base di informazioni adatte allo sviluppo di alcune considerazioni sul tema. La raccolta dati è stata messa insieme utilizzando i piani di studio attualmente pubblicati online sulle singole pagine degli atenei e delle scuole, principalmente grazie alla lettura dei documenti più aggiornati e disponibili al momento dello svolgimento di questa analisi. In particolare, sono stati presi in considerazione i piani di studio dei corsi di laurea triennale riferiti alla classe di laurea in Scienze dell’Architettura (L-17) e quelli dei corsi di laurea magistrale e magistrale a ciclo unico per la classe di laurea magistrale in Architettura e Ingegneria Edile – Architettura (LM-4). Per ogni anno di corso sono stati riportati tutti i laboratori erogati, identificati con titolo, numero di crediti complessivi, svolgimento semestrale o annuale. Fin dalle sue prime fasi, lo studio ha incontrato alcune problematiche, legate soprattutto alla vastità del campo di indagine e alla specificità legate alle varie scuole o ai piani di studio, o anche rispetto ai singoli laboratori. Le difficoltà poste da questi ostacoli hanno messo le basi per la definizione di alcuni limiti e linee guida per la raccolta e sistematizzazione delle informazioni.
La questione della vastità è evidentemente legata al numero, possibilmente molto ampio, di dati raccolti e alla loro difficile armonizzazione. Per questo motivo il campo di indagine è stato circoscritto a una selezione rappresentativa di atenei e scuole di architettura italiane, che include: il Politecnico di Milano, il Politecnico di Torino, l’Università Iuav di Venezia, l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, l’Università degli Studi Roma Tre, Sapienza Università di Roma, l’Università degli Studi di Firenze e, infine, il Politecnico di Bari. Per alcune sezioni dei grafici, inoltre, sono stati introdotti i dati di alcune università non italiane, come sarà di seguito descritto. Come anticipato, all’interno di questa selezione di atenei l’attenzione viene posta sui vari piani di studio – includendo quindi, quando presente, la doppia declinazione in lingua italiana e inglese – e sui rispettivi laboratori, che vengono descritti secondo la loro unità di misura principale, cioè il numero di crediti. Attraverso l’unità di misura dei crediti, infatti, è possibile quantificare il peso dei laboratori rispetto a quello complessivo dei piani di studio e di approfondirne le quantità riferite agli specifici moduli dei vari settori scientifico-disciplinari.
Per quanto riguarda, invece, la questione della specificità sono state riscontrate alcune difficoltà legate alla variabilità e individualità di alcuni piani di studio e dei loro laboratori. Questa differenziazione nel corso dell’indagine è stata gestita adottando un principio generale di semplificazione che cercasse di focalizzarsi il più possibile sull’importanza di rilevare la reale presenza e collocazione dei laboratori di progetto all’interno del percorso formativo. Per esempio, nel caso di laboratori tematici o opzionali che presentassero delle diversità legate alla scelta del singolo laboratorio – come la destinazione di un numero variabile di crediti ai vari settori scientifico-disciplinari – si è fatto riferimento ai dati la cui presenza nel piano di studi risultasse certa, indipendente dalle scelte individuali degli studenti, e tralasciando informazioni legate unicamente a una selezione di uno o più laboratori.
Un aspetto particolarmente importante è quello legato al criterio di selezione dei laboratori di progetto all’interno nel più vasto gruppo dei laboratori, al di là del diretto riferimento alla titolazione del corso. Con questo scopo si è deciso di utilizzare come criterio di selezione la presenza di crediti riferiti all’ICAR/14 (Composizione architettonica e urbana), ICAR/15 (Architettura del paesaggio) e ICAR /16 (Architettura degli interni e allestimento). L’identificazione di questi settori scientifico-disciplinari e dei relativi crediti, infatti, permette di separare i laboratori di matrice più progettuale rispetto a quelli più direttamente legati ad altre discipline, come ad esempio i laboratori di tecnica delle costruzioni o quelli di conservazione. I crediti legati a questi settori scientifico-disciplinari “progettanti”, quindi, sono stati scorporati e conteggiati separatamente, in modo da poterne valutare il peso all’interno dei laboratori di progetto. Riassumendo, quindi, sono state effettuate alcune operazioni principali, ciascuna legata all’estrapolazione di una precisa categoria di dati:
- la prima operazione è stata descrittiva della didattica laboratoriale, attraverso l’identificazione di tutti i laboratori erogati all’interno dei vari piani di studio e la lettura di alcune caratteristiche principali tra cui la titolazione, il numero di crediti complessivi, la configurazione semestrale o annuale, i settori scientifico-disciplinari coinvolti. Questo ha permesso di effettuare una ricognizione della didattica laboratoriale all’interno delle scuole di architettura e del suo peso nell’offerta formativa, grazie al confronto con il numero di crediti totale dell’intero piano di studi;
- la seconda operazione è stata discretiva dei laboratori di progetto sulla base della presenza di crediti riferiti ai settori scientifico-disciplinari ICAR/14, 15 e 16. In questo senso è stato rilevato il numero di crediti complessivi erogati tramite i laboratori di progetto con la possibilità di misurarne la relazione rispetto agli altri;
- la terza operazione è stata analitica dei crediti ICAR/14, 15 e 16, in modo tale da definirne il peso generale rispetto ai crediti riferititi ad altri settori scientifico-disciplinari, nel quadro generale definito dalla strutturazione dei laboratori come integrazioni di moduli differenti.
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Greta Allegretti – PhD, research fellow of the project DT2 (UdR Politecnico di Milano).
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Building narratives for communities
The world of architectural education is becoming more complex with each passing year. At the turn of the millennium, design culture found itself having to face challenges that once seemed far from the world of “bella forma”, of an architecture that, at least in Europe, until not long ago spoke of the autonomy of the architectural project. A pious illusion, in which Italian academic architecture indulged for some decades, sinking with it. More than ever today, we know that that kind of Eden in which architects hoped, dreamed, to live undisturbed and accountable only to a few, to the Maestri, no longer exists. Perhaps it never did.
Architecture has always had to contend with place, with craftsmen, with politics, with geography, with topography, with the cults and myths of the communities in which it was embedded. Despite the purposes of its construction often being, at least in the case of what we now consider monuments and collective memories worth preserving, political control – as with military works – or existential, in the case of religious works, architecture has always had to reckon with the people among whom it would be built and later live. And therefore with the communities to which it would be addressed.
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An Italian school of architecture that truly wishes to be international must strengthen its specificity in listening to demands that arise from close contact with its own area of study, with its stakeholders, with those communities whose stories, in order to become narratives, must be rooted. If the design studios of our schools want to continue being one of the core formative hubs for tomorrow’s architects, they must know how to tune their ear to their reference communities, thereby becoming necessary – otherwise they risk losing all reason to exist in the unrestrained late-capitalist competition of current international schools. A trend, that of pragmatic efficiency, is sadly occupying the space and time of those who could more fruitfully invest them in the construction of narrative laboratories, as one might now call them, paraphrasing Byung-Chul Han. «Stories connect people to one another, fostering the ability to empathize. From them, a community emerges». Hence, the choice of themes shared with the people and associations with whom one works, attention to the ways of narrating the experiences of those who live in the territory – not just of specialists, who are increasingly less capable of making “listening space” in their frenetic work – seem today to represent the real directions for transforming design studios at all scales of design; studios that only in this way will remain foundational and irreplaceable.
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At the same time, our academic training paths today seem to be moving in an intrinsically contradictory direction: on one hand, increasingly tight course design strategies, with strict and increasingly pervasive monitoring procedures, follow one another as if it were truly possible to “industrialize” the educational process of our students without adequately taking into account their aspirations and fears, the dreams and nightmares that our time daily proposes to those in training in an era that seems afraid of the near future. On the other hand, increasingly open intersections between different degree courses are beginning to emerge on the legislative level, with the possibility of building learning paths with a freedom that might even appear excessive, giving students opportunities to increasingly personalize their educational journey – with consequences for the narrative of a profession with such a layered history as that of the architect that are difficult to predict.
In any case, in this still contradictory landscape, the formative growth potential of architectural design studios appears enormous if built on a constant relationship based on structured listening to the reference territory and its social and productive realities.
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It is clear that much will depend on how capable design studio instructors are in making them places of experimentation, encounter, and contamination of methods and languages according to the perspective mentioned earlier. Places of cultural métissage, where it would be desirable not to attempt to propose abstractly professionalizing dynamics – something now to be considered practically impossible, much more so than it may have seemed in the late twentieth century. In some way, the opacity of education—that sort of undefined possibility of doing, redoing, shifting from one apparently settled practice to another in order to cross small thresholds of encounter with the lesser known, the more playful, the more socially referenced process of architectural design shared with communities—appears, from the writer’s point of view, the most interesting perspective for not being swept up in the frenzy of rushing into the arms of the goddess who appears on the horizon and seems to run toward us in her apparently transparent, luminous omniscience: artificial intelligence.
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Costruire narrazioni per le comunità
Il mondo della formazione dell’architetto va rendendosi di anno in anno più complesso. La cultura del progetto in questo passaggio di millennio si è trovata a dover affrontare sfide che sembravano lontane dal mondo della “bella forma”, di un’architettura che, almeno in Europa, fino a non molto prima parlava di autonomia del progetto di architettura. Una pia illusione, in cui l’architettura accademica italiana per qualche decennio si è cullata, affondando. Mai come oggi, sappiamo che quella specie di Eden in cui gli architetti speravano, sognavano, di poter vivere indisturbati e senza dover dar conto se non a pochi, ai Maestri, non esiste più. Forse non è mai esistito.
L’architettura ha sempre dovuto fare i conti con il luogo, con le maestranze, con la politica, con la geografia, con l’orografia, con i culti e i miti delle comunità in cui si inseriva. Malgrado le finalità della sua costruzione spesso, almeno di quelli che oggi consideriamo monumenti e memorie collettive da tutelare, fossero il controllo politico, come per le opere militari, o esistenziale, nel caso delle opere religiose, l’architettura ha sempre dovuto fare i conti con le persone tra le quali avrebbe dovuto costruirsi e poi vivere. E quindi con le comunità alle quali si sarebbe dovuta rivolgere.
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Una scuola di architettura italiana, che voglia essere davvero internazionale, deve rafforzare la propria specificità di ascolto di istanze che nascano dal contatto strettissimo col proprio territorio di studio, con i suoi portatori di interessi, con quelle comunità che hanno storie che, per diventare narrazioni, devono essere radicate. Se i laboratori del progetto delle nostre scuole vorranno continuare a essere uno dei fuochi formativi degli architetti di domani dovranno saper tendere l’orecchio alle proprie comunità di riferimento diventando in tal modo necessari, pena perdere ogni ragione di esserci nella smodata competizione tardo capitalista delle attuali scuole internazionali. Un trend, quello dell’efficientismo pragmatico, che sta tristemente prendendo spazi e tempi di chi potrebbe più fruttuosamente investirli in queste costruzioni di laboratori narrativi, come a questo punto verrebbe da chiamarli parafrasando Byung-Chul Han. «Le storie congiungono le persone le une alle altre, favorendo la capacità di empatizzare. Da esse emerge una comunità». Per cui la scelta dei temi condivisi con le persone e le associazioni con cui si opera, l’attenzione alle modalità di narrazione delle esperienze chi nel territorio vive, e non solo agli specialisti, peraltro sempre meno capaci di fare “spazio di ascolto” nel proprio frenetico operare, sembrano oggi rappresentare le reali direttrici di trasformazione dei laboratori progettuali a tutte le scale del progetto; laboratori che solo così resteranno fondanti e non sostituibili.
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D’altra parte, proprio in questi giorni i nostri percorsi formativi accademici sembrano andare in una direzione intrinsecamente contrastante: da una parte, strategie di progettazione di corsi di studio sempre più stringenti, con procedure di monitoraggio serrate e sempre più capillari, si susseguono come se fosse davvero possibile “industrializzare” il processo formativo dei nostri studenti, senza tenerne in debita considerazione le aspirazioni e le paure, i sogni e gli incubi che il nostro tempo quotidianamente propone a chi è in formazione in tempi che sembrano avere timore del prossimo futuro. Dall’altra, si iniziano a prospettare sul piano legislativo intersezioni sempre più aperte tra corsi di laurea differenti, con possibilità di costruire percorsi formativi con una libertà che potrebbe apparire anche esasperata, dando agli studenti opportunità di personalizzare sempre di più il proprio percorso formativo con conseguenze, sulla narrazione di un mestiere con una storia così stratificata come quello dell’architetto, difficili da prevedersi.
In ogni caso in questo pur contraddittorio panorama, le potenzialità di crescita formativa da parte dei laboratori di progettazione architettonica appaiono enormi se costruiti nel rapporto costante basato su uno strutturato ascolto del territorio di riferimento e sulle sue realtà sociali e produttive.
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È chiaro che molto dipenderà da quanto i docenti dei laboratori progettuali sapranno renderli luoghi di sperimentazione, incontro e contaminazione di modalità e linguaggi secondo la prospettiva prima accennata. Luoghi di meticciato culturale, dove sarebbe auspicabile non si tentasse di proporre dinamiche astrattamente professionalizzanti, cosa oggi da ritenersi praticamente impossibile molto più di quanto potesse apparire nel secondo Novecento. In qualche modo l’opacità della formazione, quella sorta di indeterminata possibilità di fare, rifare, spostarsi da una prassi apparentemente tranquilla a un’altra per superare piccole soglie di incontro con il meno noto, il più giocoso, il più socio-referenziato processo del progetto di architettura condiviso con le comunità appare, dal punto di vista di chi scrive, la prospettiva più interessante per non farsi prendere dalla frenesia di lanciarsi tra le braccia della dea che appare all’orizzonte e che sembra correrci incontro nella sua apparente trasparente, luminosa onniscienza: l’intelligenza artificiale.
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Nicola Flora – Full Professor, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Dettaglio di uno degli allestimenti temporanei organizzati dagli studenti del DiARC partecipanti al workshop “UpLiving Riccia” svoltosi a Riccia (CB) nella primavera 2014 (foto Nicola Flora) -
The capacity for (general) vision as a necessary specialism
I will begin with a statement that I know today risks being seen as outdated: the design studio is and must continue to be the “backbone” of architectural studies. […] Not even the recent reform of the degree classes introduced by Ministerial Decrees no. 1648 and no. 1649, respectively for bachelor’s and master’s degrees, in 2023, risks undermining this principle. The much-anticipated flexibility and interdisciplinarity – meant to be achieved by reducing the constraints on credits assigned to various disciplinary fields – fortunately clash, in our case, with the need to maintain consistency with what is laid out in the aforementioned EU regulations. The result is that, in practice, aside from a few details, such as those related to the internal balances within the macro-area of architectural design, the new tables largely overlap with the previous ones.
However, there is a problem that could perhaps be described as one of “perception”, but upon closer inspection is more profound. The European constraint on the percentage of studio-based teaching in degree programs aimed at training architects has led universities—faced with the impossibility of significantly modifying the positioning of scientific-disciplinary sectors—to resolve the issue by extending the studio teaching model to many disciplines. Moreover, many of these disciplines have over time requested and mostly obtained the inclusion of the word project in the titles of their courses. Recently, with the shift to GSDs (scientific-disciplinary groups), not only have sector descriptions but sometimes even their names been modified in this direction.
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In this context, it is therefore not surprising that young students are not always able to find their bearings and understand the differences.
If this is the analysis, I believe it is extremely difficult to provide “recipes”. In every school, there are traditions, balances, and – why not – different positions of power that make it more or less possible to move toward a clarification of the central role of architectural design in the curricula of architecture degree programs.
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What do we think the role of the architect – the person we are educating – is in society? Well, paraphrasing the title of a book by Marco Biraghi, I still believe that the architect must above all be an intellectual, and that, especially when facing the complexity of our time, specialisms that observe reality in a fragmented manner are not the solution. Against all tendencies to transform universities into vocational schools—and with some justified concern about the ongoing discussions around qualifying degrees—I believe the task of the university remains, to paraphrase Edgar Morin (who in turn cites Montaigne), not to fill “well-stuffed heads”, but to shape “well-made heads”, capable of reading complexity and adapting to the speed of change.
At this point, I would pose a question: is a good study program enough to achieve our goals? This conclusion is not meant to be pessimistic, as I have strong faith in the university institution. However, right now it must show its capacity to ask itself deeper questions. The question could be framed as follows: do our schools aim to educate architects who meet market demands, or figures still capable of “political” action, who do not fall into the trap of a hyperrealistic acknowledgment of reality? And even less – and this is a statement – the School should not adapt to this hyperrealism by responding uncritically to external demands, thereby undermining the original and profound role and meaning of the universi cives.
Many dislike the term “generalist architect”. But the capacity for general vision across the fragmented domains of architecture today belongs to our discipline, which indeed cu-pone and is, in this sense, its necessary “specialism” – for the School and for the world.
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La capacità di visione (generale) come necessario specialismo
Partirò con un’affermazione che so oggi rischiare di essere intesa come di retroguardia: il laboratorio di progettazione è e deve continuare a essere la “spina dorsale” degli studi di architettura. […] Neppure la recente riforma delle classi di laurea di cui ai decreti ministeriali n. 1648 e n. 1649, rispettivamente per le lauree e le lauree magistrali, del 2023, rischia di intaccare questo principio poiché le tanto auspicate flessibilità e interdisciplinarità, da realizzarsi attraverso lo strumento della riduzione dei vincoli relativi ai crediti da assegnare ai vari ambiti disciplinari, si scontrano, per fortuna, nel nostro caso con la necessità di mantenere la coerenza, nei corsi regolati dalle normative dell’Unione Europea, con quanto nelle citate norme contenuto. Il risultato è che, di fatto, salvo alcuni dettagli legati ad esempio agli equilibri interni al macro-settore della progettazione architettonica, le nuove tabelle siano in buona misura sovrapponibili alle precedenti.
Esiste però un problema che si potrebbe forse definire di “percezione”, ma a ben guardare è più profondo. Il vincolo europeo sulla percentuale di didattica laboratoriale nei corsi di laurea finalizzati alla formazione dell’architetto ha spinto le università a risolvere la questione, nell’impossibilità di lavorare in maniera significativa sui posizionamenti dei settori scientifico-disciplinari, estendendo la modalità didattica del laboratorio a molte discipline che, in più, hanno nel tempo chiesto e per lo più ottenuto, nella titolazione di molti loro insegnamenti, l’introduzione della parola progetto e di recente, nel passaggio ai GSD (gruppi scientifico disciplinari), non solo le declaratorie dei settori ma talvolta anche le loro denominazioni sono state modificate in tal senso.
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In questo quadro, non sorprende quindi che i giovani allievi non sempre siano in grado di orientarsi e comprendere le differenze.
Se questa è l’analisi, credo sia estremamente difficile fornire “ricette”. In ogni scuola esistono tradizioni, equilibri e, perché no, anche posizioni di forza differenti che rendono più o meno possibile fare operazioni nella direzione di una chiarificazione del ruolo centrale della progettazione architettonica negli ordinamenti dei corsi di laurea in Architettura.
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Quale pensiamo che sia il ruolo dell’architetto, cioè di colui che stiamo formando, nella società? Ecco io, parafrasando il titolo di un libro di Marco Biraghi, credo ancora che l’architetto debba essere innanzitutto un intellettuale e che, proprio di fronte alla complessità del nostro tempo, gli specialismi, che osservano la realtà in forma disgiuntiva, non siano la soluzione. Contro ogni tendenza a trasformare le università in scuole professionali, e con qualche motivata perplessità oltre che preoccupazione per quanto si sta da un po’ discutendo a proposito delle lauree abilitanti, credo che il compito della università resti, parafrasando Edgar Morin, che a sua volta cita Montaigne, formare, piuttosto che «teste ben piene», «teste ben fatte» e quindi capaci di leggere la complessità e adattarsi alla velocità del cambiamento.
A questo punto, porrei una domanda: è sufficiente un buon progetto di corso di studio per raggiungere i nostri obiettivi? La chiusura non vuole essere pessimista, avendo io una salda fiducia nella istituzione universitaria che però, in questo momento, deve dimostrare la capacità di porsi un’interrogazione più profonda. La domanda potrebbe essere così formulata: le nostre scuole intendono formare architetti che rispondano alle richieste del mercato o figure ancora capaci di un’azione “politica” che non cada nel tranello di un iperrealismo constatativo della realtà? E ancora meno, e stavolta si tratta di un’affermazione, all’iperrealismo constatativo deve adattarsi la Scuola rispondendo a-criticamente alle richieste e svilendo in tal modo il ruolo e il senso, originario e profondo, della universi cives.
Non piace a molti la definizione di “architetto generalista”. Ma la capacità di visione generale sui frammentati ambiti dell’architettura oggi appartiene alla nostra disciplina che infatti cum-pone ed è, in tal senso, il suo necessario, alla Scuola e al mondo, “specialismo”.
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Federica Visconti – Associate Professor, Dipartimento di Architeettura, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Le scuole sono cominciate con un uomo sotto a un albero, che non sapeva di essere un maestro, e che esponeva ciò che aveva compreso ad alcuni altri, che non sapevano di essere degli studenti. […] Presto si eressero gli spazi necessari e apparvero le prime scuole. Louis I. Kahn -
Coherence and the role of the design studio
Recent history has shown that, in the specific case of the most genuinely original educational experiences in the field of architecture, what defines the character, motivation, specificity, and all the peculiar features of experimental teaching are identified simply with a school, not with a department, and even less with a degree program.
On the other hand, despite the countermeasures adopted by individual universities when faced with a degree program not attributable to a single department – a frequent case for some bachelor’s degrees distributed across disparate disciplinary sectors – universities have structured models of co-ownership of the educational offer, the concrete management of which has been entrusted to, organized, and rationalized by the second-level structure, with more or less incisive responsibilities for educational coordination.
This, in brief schematic terms, represents the basic premise upon which those involved in defining educational pathways operate today.
The concern, therefore, is not so much to try to analyze some technicalities related to the organization and possible versatility of a course’s educational structure, but rather to try to grasp the specificity of the studio format for architectural studies as an opportunity to partially restore a central role, in this tangle of regulatory contradictions, to study and scientific research in the specific field of architectural studies.
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In general terms, then, it is only possible to attempt to outline some features that could potentially unify the role of the design studio within the broader educational offer on design.
A first issue concerns the search for key competencies, which are not merely related to simple abilities, more commonly known as skills, but rather to the deployment of autonomous capabilities to be developed in an experimental educational context focused on architectural design. These aptitudes, explored through the mutual acquisition of knowledge appropriate to the specific working context, would be able to place the work of professors and students on the same operational level, as a space of critical exchange that is indispensable for everyone involved in learning within an active scientific community based on learning.
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A second issue relates to the number of design studios. While the European standard allows for defining a maximum threshold of participants compatible with a complex work experience and consequently with substantial educational expectations, the experience of studio-based education in Italy shows significant heterogeneity. Here too, it would be necessary to envision some objectives for a minimum common denominator that the various schools and universities could offer in the face of certain internal constraints, such as the teaching budget, curricula, or the characterization of study programs, among others. Constraints which, if shared in their essential lines, could virtually produce comparable and measurable results at least from a methodological standpoint, and thus be subject to common countermeasures to enhance overall performance and make it more effective and coherent with the educational objectives.
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A third issue concerns more specifically the relationship between studio-based teaching and lecture-based teaching within a degree program. While it is possible to recognize an as-yet-undeveloped potential in the studio format, lecture-based teaching, over its long tradition, has revealed some limitations and constraints – for example, in the relationship between instructor and student group – becoming predominantly a one-way path with no exchange. As long as a public school system persists – except in the case of private universities – and hopefully a system of mass education, individual interaction is a necessary condition for also evaluating that of the entire student group, whose effectiveness is inversely proportional to the size of the group. In studio-based teaching, the observation of evaluative and learning phenomena not only moves toward a participatory and assisted form of education, in which the individual and the work group are equal elements, but also allows for the identification of phases of growth and exchange between the group and the individuals within it, through specific interactions that are possible only in a studio context and not in purely lecture-based teaching.
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Finally, a last possible issue, among the many that could be raised, concerns the necessary degree of interdisciplinarity in studio-based teaching, which sets objectives not always aligned, for example, with the departmental tendency to structure itself around distinct thematic groups, predominantly from three or four disciplinary sectors, to position itself in the research market with a clear thematic identity.
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Rethinking the disciplinary contribution free from performative motives tied to the specific needs of departmental research – rather than integrating and sharing them in the studio’s propensity for concrete field experimentation – would mean adopting those same performance models and knowing how to reshape, modify, or vary them. This represents the other major intervention theme, which requires adequate competencies, especially when those models prove to be non-functional to the student’s education but, at best, only to the advancement of the scientific outcomes of the research undertaken. It is a moral obligation, even before a design one, for all professors to consider teaching a primary, demanding commitment, and a true educational and ethical contract between school and society.
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Coerenza e ruolo del laboratorio di progettazione
La storia recente ha mostrato come, nello specifico caso delle esperienze didattiche più autenticamente originali nel campo dell’architettura, ciò che connota il carattere, la motivazione, la specificità e tutte le peculiari tipicità di una didattica sperimentale, sono identificate semplicemente con una scuola, non con un dipartimento e tantomeno con un corso di studi.
D’altra parte, seppur nelle contromisure adottate dai singoli atenei che di fronte a un corso di studio non attribuibile a un singolo dipartimento, caso frequente per alcune lauree triennali trasversalmente distribuite tra disparati settori disciplinari, le università hanno strutturato modelli di co-titolarità dell’offerta didattica, la cui gestione concreta è stata affidata, organizzata e razionalizzata dalla struttura di secondo livello, con compiti più o meno incisivi di coordinamento didattico.
Questo rappresenta, sintetizzando schematicamente, il dato di fondo sul quale oggi si muovono gli attori che intervengono nella definizione dei percorsi didattici.
Preme, allora, non tanto tentare di analizzare alcune tecnicalità riferite all’organizzazione e le possibili versatilità dell’impianto didattico di un corso, quanto piuttosto cercare di cogliere la specificità della formula laboratoriale per gli studi di architettura come un’opportunità che possa restituire anche parzialmente un ruolo centrale, in questa congerie di contraddizioni normative, agli studi e alla ricerca scientifica nel particolare campo degli studi dell’architettura.
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In linea generale, dunque, è possibile solo tentare di tracciare alcuni tratti che potenzialmente potrebbero accomunare il ruolo del laboratorio nella più ampia offerta didattica sul progetto.
Una prima questione riguarda la ricerca delle competenze chiave, che non sono riferibili a delle semplici abilità, più note come skills, quanto piuttosto alla messa in campo di autonome capacità da sviluppare, appunto, in un contesto didattico sperimentale sul progetto di architettura. Queste attitudini esplorate sotto forma di acquisizione reciproca di conoscenza, adeguate allo specifico contesto di lavoro, sarebbero in grado di mettere sullo stesso piano operativo il lavoro dei docenti e quello degli studenti, come spazio di confronto critico indispensabile per ogni soggetto legato all’apprendimento in una comunità scientifica operante e basata sull’apprendimento.
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Una seconda questione è relativa alla numerosità dei laboratori. Se lo standard europeo consente di poter definire una soglia massima di frequentanti, compatibile con un’esperienza di lavoro complessa e di conseguenza con attese formative consistenti, l’esperienza della formazione laboratoriale in Italia mostra una notevole disomogeneità. Anche qui occorrerebbe poter immaginare alcuni obiettivi per un minimo comun denominatore che le diverse scuole e atenei potrebbero offrire a fronte di alcuni vincoli interni, come il budget per la didattica, gli ordinamenti o la caratterizzazione dei corsi di studio, fra gli altri. Vincoli che, se condivisi nelle linee essenziali, potrebbero virtualmente riuscire a produrre risultati confrontabili e misurabili almeno sul piano metodologico, e quindi passibili di contromisure comuni per potenziare il rendimento generale e renderlo più incisivo e coerente agli obbiettivi formativi.
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Una terza questione riguarda più propriamente il rapporto tra didattica laboratoriale e didattica frontale all’interno di un corso di studi. Mentre è possibile riconoscere una potenzialità ancora non del tutto espressa rispetto a quella laboratoriale, la didattica frontale nel corso della sua lunga tradizione ha palesato alcuni limiti e vincoli, per esempio nel rapporto tra docente e gruppo studenti, diventando prevalentemente un percorso univoco e senza scambi. Fintanto che resiste una scuola pubblica, salvo i casi di università private, e auspicabilmente una formazione di massa, l’interazione individuale è condizione necessaria per valutare anche quella dell’intero gruppo di studenti, la cui efficacia è inversamente proporzionale alla numerosità del gruppo. Nella didattica laboratoriale, l’osservazione dei fenomeni valutativi e di apprendimento non solo va in direzione di una formazione partecipata e assistita, in cui il singolo e il gruppo di lavoro costituiscono elementi paritetici, ma consente anche di individuare fasi di crescita e scambio tra gruppo e individuo che lo compone, in virtù di specifiche interazioni possibili, appunto, solo in laboratorio e non in una didattica unicamente frontale.
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Infine, un’ultima possibile questione, tra le molte altre che potrebbero essere sollevate, riguarda il necessario tasso di interdisciplinarità dell’insegnamento laboratoriale che pone gli obiettivi non sempre allineati, per esempio, alla propensione dipartimentale di strutturarsi intorno a gruppi tematici distinti, prevalentemente di tre o quattro settori disciplinari, per collocarsi nel “mercato della ricerca” con una netta caratterizzazione tematica.
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Ripensare quindi il contributo disciplinare svincolato da ragioni performative legate alle singole esigenze di ricerca dipartimentale, piuttosto che integrarle e renderle condivise nella propensione laboratoriale alla sperimentazione concreta sul campo, significherebbe assumere quegli stessi modelli prestazionali e saperli rimodulare o modificare o variare. Questo rappresenta l’altro grande topos d’intervento, che richiede competenze adeguate soprattutto quando quei modelli risultano essere non funzionali alla formazione dello studente ma, nel migliore dei casi, semplicemente all’emancipazione dei risultati scientifici della ricerca messa in atto: è obbligo morale prima che progettuale di tutti docenti l’attitudine all’insegnamento come formula impegnativa primaria, e vero e proprio contratto educativo ed etico tra scuola e società.
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Domenico Chizzoniti – Full Professore, Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano.
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Architecture in a small school
A contribution that seems interesting to me, regarding the experimentation that can be carried out within Design Studios, is the one we have been developing for several years now in the Master’s Degree course active at the Mantua Territorial Campus. […] The course was conceived around a prevailing theme concerning the relationship between architectural design and the history of architecture, with great attention to the theme of internationalization.
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The architectural design studios have been organized in close relation to the educational objectives of the course and thus to the theme of the relationship between architecture and history, and in close relation to the city of Mantua and its territory. The Master’s program includes three architectural design studios, each lasting one semester, organized in two parallel sections, often linked in themes and activities. The first, called Architectural Design and History, has an introductory nature, takes place in the first semester of the first year, and is dedicated to bringing students closer to the theme of the relationship between history and design. The two subsequent studios are more focused on the design work and are scheduled respectively in the second semester of the first and second years.
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Both these studios, in the first and second years, have been structured with a partly experimental approach and time organization for teaching. Not a course normally distributed in one or two weekly meetings, but an organization in two parts. In the first months of the semester, which serve as an introduction to specific skills and the building of design themes, the schedule of meetings follows the usual weekly structure. In the second part, moving towards the end of the semester in May, the teaching is instead organized into two intensive weeks dedicated to a deepening of the design phase. Different approaches have been tested with the two intensive weeks held consecutively or, as now happens, with the two intensive weeks separated by a traditional week for sedimentation and reflection on the design work in progress.
This teaching organization logic was partly conceived to optimize and facilitate the involvement of foreign professors in the studio work, partly to build synergy with the Mantovarchitettura initiative, a sort of festival also organized in May at the Mantua Campus. Mantovarchitettura is a cultural project conceived and organized since 2012 by the Mantua Territorial Campus of the Politecnico di Milano, within the activities of the UNESCO Chair in Architectural Preservation and Planning in World Heritage Cities. The initiative offers a broad program of exhibitions, workshops, conferences, and meetings with leading figures of international architectural culture, partly held inside the Mantua Campus but mostly in other locations outside the school, emblematic of the city (Palazzo Ducale, the church of San Sebastiano, the Casa del Mantegna, among others). The continuous presence in Mantua during May of national and international guests, prominent figures in the architectural scene, and all the students of the Architectural Design and History course engaged in the intensive weeks, has over the years created a cultural atmosphere that is exceptional in many respects, allowing and indeed programmatically foreseeing a crossing and a very lively and productive contamination between the lecture experience and teaching. The guests at Mantovarchitettura are not only involved in presenting their work but are actively involved in the teaching of the intensive weeks, in the work students are carrying out, through discussions, critiques, and more. The result is a very demanding and tiring experience in its organization and management, often debated and differently evaluated by students, torn between teaching commitments and participation in various events, but truly immersive and in many respects extraordinary as architectural teaching.
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A simple and clear idea of how to organize a School of Architecture: a small group of professors and researchers rooted in the territory, and some figures of high international prestige. […] The idea of a small, open, dynamic school, never predictable and never banal. The idea of an International school. And undoubtedly the Mantua school has had, and continues to have, this essence, and certain months of May, in the midst of the intensive weeks and Mantovarchitettura, have been very demanding but extremely rich and unforgettable, both for professors and students.
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Architettura in una piccola scuola
Un contributo che mi sembra interessante, riguardo alla sperimentazione che si può attuare all’interno dei Laboratori di Progettazione, è quella che abbiamo avviato, ormai da diversi anni, nel corso di Laurea Magistrale attivo presso il Polo territoriale di Mantova. […] Il corso è stato concepito intorno a un tema prevalente che riguarda il rapporto tra progettazione architettonica e storia dell’architettura e con una grande attenzione al tema dell’internazionalizzazione.
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I laboratori di progettazione architettonica sono stati organizzati in stretta relazione con gli obiettivi didattici del corso e dunque con il tema del rapporto tra architettura e storia e in stretta relazione con la città di Mantova e il suo territorio. Nel corso di Master sono previsti tre laboratori di progettazione architettonica di durata semestrale, organizzati in due sezioni parallele, spesso collegate nei temi e nelle attività. Il primo denominato Architectural Design and History, ha carattere introduttivo, si svolge nel primo semestre del primo anno ed è dedicato ad avvicinare gli studenti al tema del rapporto tra storia e progetto. I due laboratori successivi sono invece più focalizzati sul lavoro di progetto, e collocati rispettivamente nel secondo semestre del primo e del secondo anno.
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Entrambi questi laboratori, del primo e del secondo anno, sono stati strutturati secondo una modalità e organizzazione del tempo della didattica in parte sperimentali. Non un insegnamento normalmente distribuito secondo la scansione di uno, due incontri a settimana, ma un’organizzazione in due parti. Nei primi mesi del semestre, che hanno un ruolo di introduzione alle competenze specifiche e di costruzione dei temi di progetto, la scansione degli incontri segue la consueta strutturazione in incontri settimanali. Nella seconda parte, che si avvia verso la conclusione del semestre, nel mese di maggio, la didattica è invece organizzata in due settimane intensive dedicate ad un affondo della fase progettuale. Si sono sperimentate differenti logiche con le due settimane intensive in sequenza continua o, come ora avviene, con le due settimane intensive separate da una settimana tradizionale, di sedimentazione e riflessione sul lavoro di progetto in corso.
Questa logica di organizzazione della didattica è stata concepita in parte per ottimizzare e agevolare il coinvolgimento dei docenti stranieri nel lavoro del Laboratorio, in parte per costruire una sinergia con l’iniziativa Mantovarchitettura una sorta di festival organizzato anch’esso nel mese di maggio presso il Polo di Mantova. Mantovarchitettura è un progetto culturale ideato e organizzato a partire dal 2012 dal Polo Territoriale di Mantova del Politecnico di Milano, nell’ambito delle attività della UNESCO Chair in Architectural Preservation and Planning in World Heritage Cities. L’iniziativa propone un ampio programma di mostre, workshop, convegni e incontri con protagonisti della cultura architettonica internazionale, in parte svolti all’interno del Campus di Mantova ma in gran parte in altri luoghi, esterni alla scuola, e emblematici della città (Palazzo Ducale, la chiesa di San Sebastiano, la Casa del Mantegna, tra gli altri). La presenza continua a Mantova, nel mese di maggio, di invitati nazionali e internazionali, figure di grande interesse nel panorama architettonico, e della totalità degli studenti del corso di Architectural Design and History, impegnati nelle settimane intensive, ha dunque costruito negli anni un clima culturale per molti aspetti eccezionale, consentendo anche, anzi prevedendo programmaticamente, uno sconfinamento e una contaminazione molto vitale e produttiva tra l’esperienza della lecture e quella della didattica. Gli invitati a Mantovarchitettura non sono infatti coinvolti solo a presentare il loro lavoro ma sono invece coinvolti attivamente nella didattica delle settimane intensive, nel lavoro che gli studenti stanno portando avanti, attraverso discussioni, critics e altro. Con il risultato di un’esperienza molto impegnativa e faticosa nella sua organizzazione e gestione, spesso oggetto di discussione e di differenti valutazioni da parte degli studenti, contesi tra l’impegno didattico e la partecipazione ai vari eventi, ma davvero immersiva e per molti aspetti straordinaria di didattica dell’architettura.
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Un’idea semplice e netta, di come organizzare una Scuola di architettura: un gruppo ristretto di docenti e ricercatori con le radici nel territorio, e alcune figure di alto prestigio internazionale. […] Un’idea di scuola piccola, aperta, dinamica, mai scontata e mai banale. L’idea di una scuola Internazionale. E indubbiamente la scuola di Mantova ha avuto, e continua ad avere, questo profumo e certi mesi di maggio, nel pieno delle settimane intensive e di Mantovarchitettura, sono stati faticosissimi ma ricchissimi e indimenticabili, sia per i docenti che per gli studenti.
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Angelo Lorenzi – Associate Professor, Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano.
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Shifting identities
I believe that, in order to try to define the role of the design studio in a school of architecture, it is first necessary to ask what the meaning of design is in relation to the current conditions of urban space, and more generally, of inhabited space. These are ever-changing conditions that are shaped by key factors such as information and communication technologies, renewed strategies for the governance of services and spaces, and the current genuine and responsible involvement of people in processes of use and in decisions concerning the qualitative aspects of the spaces meant to host their actions. Therefore, today, it is not only space in its customary forms that has changed, but more profoundly, it is the very idea of space that has undergone a strong transformation—the physical and mental form we attribute to it in relation to our actions, especially our everyday ones. We suffer from no longer recognizing ourselves in a clearly bounded and identifiable idea of community, and from this it follows that the ideal form to give to space can no longer be described according to universally shared schemes or definitions. Today’s space has a physical identity that is increasingly unstable and undefined, and its characteristics are instead expressed through the dynamics of the material and immaterial flows that pass through it.
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We are increasingly forgetting the idea of space as a place for establishing relationships of proximity. In essence, we have almost lost the sense of physical space, though the ideal contiguity between different localities remains intact—localities that may be represented by other types of spatialities: services, information, images, scenes, brands, advertisements, and so on. Hence, the city can be considered to exist everywhere and in everything, in exteriors as well as interiors, in actions as in objects, in the urban as in the non-urban, in the real as in the virtual. What seems especially interesting about contemporary space is the fact that, since it is no longer possible to precisely define its characteristics, we are now increasingly forced to imagine it.
The practice of design has always imagined space before it was built, but what characterizes our current moment is that space is now subject to an ongoing constitutive process due to the endless possibilities of inventing its use regardless of its location or physical form. This results in a design whose components describe an increasingly composite reality, rich in interrelated relationships.
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We are therefore speaking of a plural and diversified architectural project, capable of taking advantage of its now-established disposition to be a synthesis of various forms of knowledge. A project that can address problems from a lateral perspective to meet multiple goals and the needs of different users, operating across different scales of intervention. The many facets of architectural thought and the heterogeneous applications that stem from it allow architects to respond in various ways to the demands and needs of contemporary society, even by drawing on other levels of expertise and, when necessary, going beyond the strict boundaries of the professional perimeter. The architect is thus reformulated as a kind of creative mediator and bridge between different forms of knowledge, capable of bringing clarity to complex and diverse processes. In this way, the architect asserts their role not only in relation to the finished architectural product but more broadly in relation to a far more complex set of issues, which leads them to take on a new role as curator, able to propose negotiations between existing conditions and possible future projections: architecture as curatorial practice. Climate change, resource depletion, migration, sustainability, networked relationships, virtual space, artificial intelligence, and so on—our time is defined by a multitude of diverse, often interconnected issues, though not infrequently also disjointed or even autonomous from one another. This is a situation that inevitably impacts the role of the architect and the design responses they are called to produce. The logical sequence by which our actions take place has changed, and with it, the way the different spaces that host those actions are positioned relative to one another.
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Thus, in light of these reflections, here is what I believe should characterize a design studio capable of preparing new graduates to appropriately engage with the renewed conditions of contemporary space. A design studio:
- that, in order to address the major challenges of the present, is not confined to predetermined and illusory disciplinary sequences;
- that fosters a plural and diversified architectural project, able to draw upon its natural inclination to be a synthesis of different forms of knowledge;
- that is conceived as a flexible container in which to formulate programs free from constraints and adaptable over time, just like the reality students will encounter after university;
- that addresses problems in its programs from a lateral perspective, in order to meet the multiple goals and demands of future users;
- that can operate at different scales without necessarily aiming to control the entire process;
- that is open and flexible to allow students to freely express their creativity;
- that ultimately encourages the so-called culture of design, free from preconceived constraints—open, creative and transversal.
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Identità mutevoli
Penso che per provare a definire il ruolo del laboratorio di progetto in una scuola di architettura sia necessario per prima cosa chiedersi quale sia il senso del progetto in relazione alle attuali condizioni dello spazio urbano, e più in generale di quello abitato. Si tratta di condizioni in continuo mutamento che si pongono in relazione con alcuni importanti fattori rappresentati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, con le rinnovate strategie di governance dei servizi e degli spazi, con l’attuale coinvolgimento autentico e responsabile delle persone nei processi d’uso e nelle scelte relative agli aspetti qualitativi degli spazi deputati ad ospitare le loro azioni. Pertanto, oggi non è soltanto cambiato lo spazio nelle sue consuete forme, ma ciò che soprattutto ha subito una forte modificazione è l’idea stessa di spazio, la forma fisica e mentale che gli attribuiamo in relazione alle nostre azioni, anche quelle più quotidiane, anzi direi soprattutto in relazione a quest’ultime. Scontiamo il fatto di non riconoscerci più in un’idea di comunità perimetrata e identificabile, da cui deriva che la forma ideale da dare allo spazio non può più essere descrivibile secondo schemi o definizioni universalmente condivise. Lo spazio odierno ha una identità fisica sempre meno stabile e definita, e i suoi caratteri sono piuttosto espressi dalle dinamiche relative ai flussi materiali e immateriali che lo attraversano.
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Ci stiamo sempre più spesso dimenticando l’idea di spazio in quanto luogo nel quale mettere in atto relazioni di prossimità. In sostanza, abbiamo quasi perduto il senso dello spazio fisico, ma resta integra l’ideale contiguità tra località diverse, che possono essere rappresentate da spazialità di altra natura: da servizi, da informazioni, da immagini, da scene, da marchi, da pubblicità e altro ancora. Ecco allora che la città può essere considerata ovunque e in ogni cosa, negli esterni come negli interni, nelle azioni come nelle cose, nell’urbano come nel non urbano, nel reale come nel virtuale. Quello che sembra oltremodo interessante dello spazio contemporaneo, è il fatto che non essendo più possibile darne una precisa definizione dei suoi caratteri, siamo oggi costretti sempre più spesso a immaginarcelo.
La pratica del progetto ha da sempre pensato lo spazio prima che esso fosse realizzato, ma ciò che caratterizza il nostro attuale momento è il fatto che lo spazio sia investito da un processo costitutivo in continua evoluzione dovuto alle infinite possibilità di inventarsene l’uso a prescindere dalla sua collocazione o dalla sua forma fisica. Ne consegue un progetto le cui componenti descrivono una realtà sempre più composita e ricca di scambievoli relazioni.
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Parliamo dunque di un progetto di architettura plurale e diversificato, in grado di sfruttare la sua ormai acquisita predisposizione a essere sintesi tra diverse forme di sapere. Un progetto che sappia considerare i problemi da una prospettiva laterale per soddisfare i molteplici obiettivi e le istanze dei differenti utilizzatori, operando alle diverse scale di intervento. Le molteplici sfaccettature del pensiero architettonico e delle eterogenee possibilità applicative che ne derivano, consentono agli architetti di rispondere in vario modo ai bisogni e alle istanze della contemporaneità, sfruttando anche altri livelli di competenza, e, se necessario, anche travalicando i confini dello stretto perimetro professionale. L’architetto viene pertanto riformulato come una sorta di mediatore creativo e ponte tra diverse forme di conoscenza, in grado di fare chiarezza all’interno di processi complessi e diversificati. È in questo modo che egli rivendica il proprio ruolo, non soltanto rispetto al prodotto architettonico finito, ma più complessivamente in relazione a un ammontare molto più articolato di questioni che lo inducono a ricoprire un inedito ruolo di curatore, in grado di proporre negoziazioni tra le condizioni dell’esistente e le possibili proiezioni future: architettura come pratica curatoriale. Cambiamento climatico, esaurimento delle risorse, migrazioni, sostenibilità, relazioni di rete, spazio virtuale, intelligenza artificiale e così via, il nostro tempo è caratterizzato da una somma di questioni diverse, molto spesso interconnesse, ma non di rado anche disarticolate tra loro, o addirittura autonome l’una rispetto all’altra. È questa una situazione che si riversa inevitabilmente sul ruolo dell’architetto e sulle risposte progettuali che egli è chiamato a produrre. È ormai cambiata la sequenza logica con la quale avvengono le nostre azioni e di conseguenza il modo in cui i differenti spazi che le ospitano si posizionano uno rispetto all’altro.
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Ecco allora, a valle di queste considerazioni, ciò che a mio modo di vedere dovrebbe caratterizzare un laboratorio di progetto in grado di preparare i nuovi laureati a relazionarsi in modo appropriato alle rinnovate condizioni dello spazio contemporaneo. Un laboratorio di progettazione:
che per rispondere alle grandi sfide del presente non sia costretto in sequenze disciplinari predeterminate e illusorie;
che favorisca un progetto di architettura plurale e diversificato, in grado di sfruttare la sua naturale predisposizione a essere sintesi tra diverse forme di sapere;
- che sia inteso come contenitore flessibile all’interno del quale formulare programmi liberi da vincoli e modificabili nel tempo, così come sarà la realtà che gli studenti troveranno dopo l’università;
- che sappia affrontare nei programmi i problemi da una prospettiva laterale, per soddisfare i molteplici obiettivi e le istanze dei futuri utilizzatori;
- che sappia operare a scale diverse senza necessariamente pretendere di controllare l’intero processo;
- che sia aperto e flessibile per consentire agli studenti di esprimere con libertà la loro creatività;
- che incentivi, infine, la cosiddetta cultura del progetto libera da vincoli precostituiti, aperta, creativa e trasversale.
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Pierluigi Salvadeo – Full Professor, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano.
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The project for a new degree program
For the new Master’s degree program in Architecture for Communities, Territories and the Environment at DIARC, we chose to begin by outlining the fields and contexts in which an architect can operate today, beyond traditional areas of action, focusing carefully on the present, on the ongoing social and cultural changes, on humanity and the environment; after countless hours of reflection, exchange and discussion, it became almost imperative to concentrate on conditions and contexts of emergency.
For many years, the phenomena of informal cities and global megacities – where nearly a billion people now live in extreme conditions – have been studied, with attention mostly given to urban phenomena, while often overlooking how these contexts require rapid, effective and efficient design actions. Beyond these urban phenomena, by now sadly historicized, there are other types of emergency contexts, from conflicts to catastrophic environmental events, which on a daily basis cause profound disruptions, leaving territories, cities and natural areas in need of reconstruction in order to return a future to the affected populations.
Design is the tool for action, for redrawing and rebuilding places in their material and technical dimensions, for acting in their political and institutional dimensions. Design has been understood as an architecture of engagement, within a relational and dialogical framework, capable of triggering concrete and immediate action; emergency contexts return territories as traumatized as their populations, in exceptional and unforeseen situations.
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The dialogue with a wide range of interlocutors outside the canonical stakeholders of our academic programs strengthened the development of the course, providing the group of faculty members who worked on it with new stimuli and encouraging signals; today, it is by no means easy to imagine what is “professionalizing” for an architect, apart from a practice that I believe should not be part of the course of study except through a few particularly significant experiences. Certainly, our work was driven by the desire to reclaim an ethical and political role for our profession.
This shared sentiment and what was happening around us in those months (from the pandemic, to the outbreak of wars, to the rise in refugees amid the resurgence of long-standing conflicts, to the climate phenomena that now affect all seasons and all continents) increasingly highlighted the physical – and not only physical – spaces of action for the architect, a set of emergency areas requiring, even before such phenomena conclude, prompt and precise interventions in the field of international cooperation, within which design continues to play an important role.
Starting from this foundational choice, we constructed a different educational framework, working in depth on the disciplines, agreeing on both an individual and collective effort to redefine topics and practices to be proposed to students, while at the same time making use of the didactic tools we are familiar with, starting from the design studio.
The organization of the course’s teaching responds to the questions raised by this research effort. A system was therefore built based on the four semesters that make up the two-year program, each of which was given a specific theme: community, sustainability, inclusion, implementation and process. Teaching is structured through studios, which are confirmed as excellent educational devices for our disciplines and which require a renewed effort in terms of the relationship between the disciplines that compose them and the fine-tuning of the needs that courses organized around studios have – needs that can no longer be ignored.
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Il progetto di un nuovo corso di laurea
Per il nuovo corso di laurea magistrale in Architettura per Comunità, Territori e Ambiente del DIARC, abbiamo scelto di iniziare a delineare gli ambiti e i contesti entro i quali può operare un architetto oggi, oltre i tradizionali campi d’azione, soffermandoci con cura sul presente, sui mutamenti sociali e culturali in atto, sull’uomo e sull’ambiente; dopo innumerevoli ore di riflessione, scambio e discussione è apparso quasi inderogabile soffermarci su condizioni e contesti di emergenza.
Da molti anni si studiano i fenomeni delle città informali, delle megalopoli mondiali dove ormai quasi un miliardo di persone vive in condizioni inaudite, ponendo perlopiù l’attenzione ai fenomeni urbani, considerando poco quanto questi contesti richiedano azioni progettuali rapide, efficaci ed efficienti. Oltre questi fenomeni urbani ormai tristemente storicizzati, ci sono contesti emergenziali di altra natura dai conflitti agli eventi catastrofici di natura ambientale, che creano quotidianamente alterazioni profonde lasciando territori, città, aree naturali da ricostruire per restituire il futuro alle popolazioni colpite.
Il progetto è lo strumento per operare, per ridisegnare e ricostruire i luoghi nella sua dimensione materiale e tecnica, per agire nella sua dimensione politica e istituzionale. Il progetto è stato inteso come un’architettura di engagement, in una dimensione relazionale e dialogica, in grado di innescare l’azione concreta e immediata; i contesti emergenziali restituiscono territori traumatizzati quanto le popolazioni, in situazioni eccezionali e impreviste.
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Il confronto con una nutrita serie di interlocutori che esulano dai canonici stakeholders dei nostri corsi di studi, ha rafforzato la costruzione del corso, dando al gruppo di docenti che ci hanno lavorato nuovi stimoli e segnali incoraggianti; non è per nulla facile oggi immaginare per l’architetto cosa sia “professionalizzante”, a parte una pratica che ritengo non debba essere parte del percorso di studio se non attraverso alcune occasioni particolarmente significative, certamente il nostro lavoro è stato spinto dalla volontà di recuperare un ruolo etico e politico al nostro mestiere.
Questo sentire comune e quanto andava accadendo intorno a noi in quei mesi (dalla pandemia, allo scoppio delle guerre, all’aumento dei profughi con la recrudescenza di lunghi conflitti, ai fenomeni climatici che attraversano ormai tutte le stagioni e tutti i continenti) hanno sempre più evidenziato gli spazi fisici, e non, di azione dell’architetto, un insieme di ambiti emergenziali che richiedono prima ancora che i fenomeni si concludano, interventi tempestivi e puntuali nell’ambito della cooperazione internazionale, all’interno della quale si conferma uno spazio importante per il progetto.
A partire da questa scelta di fondo abbiamo costruito un meccanismo formativo diverso, lavorando nel merito delle discipline, accordandoci su uno sforzo individuale e comune per ridefinire temi e pratiche da proporre agli studenti, adoperando allo stesso tempo i dispositivi didattici a noi noti a partire dal laboratorio.
L’organizzazione della didattica del corso di studi risponde ai quesiti che questo lavoro di ricerca si pone e ci pone; si è così costruito un sistema basato sul tempo dei quattro semestri che compongono i due anni di corso, ciascuno dei quali è stato tematizzato: comunità, sostenibilità, inclusione, attuazione e processo. La didattica è strutturata attraverso i laboratori che si confermano dispositivi didattici eccellenti per le nostre discipline, rispetto ai quali bisognerebbe fare uno sforzo nuovo in termini di relazione tra le discipline che li compongono e di messa a punto delle esigenze che i corsi organizzati attraverso i laboratori hanno e che non possono essere più ignorate.
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Marella Santangelo – Full Professor, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
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The studio environment
In American schools, particularly those we might define as elite, there has always been – or there was for a long time – a strong emphasis on experimentation, meaning an attempt to push boundaries in order to explore ways and approaches to thinking about architecture that presumably are not immediately applicable in the professional field once students find themselves immersed in the working world. Experimenting with possibilities that may lack pragmatic ties to real conditions, but that nonetheless give students the ability to broaden their perspective and critically analyze reality in search of answers to urgent needs and issues increasingly emerging from society and different communities. Once again, I suspect that in Italy many projects developed within design laboratories tend to be more connected to specific contexts, or rather more constrained by principles of reality, than what happens in the American equivalents. Of course, everything mainly depends on the faculty. Looking at those dog and pony shows I referred to earlier, a certain degree of eclecticism and diversity in approaches and pedagogical methods definitely emerges. Everything depends on the individuality of the instructor leading the laboratories, on their research interests, and also on their personality. I have been able to closely observe the diversity of approaches that exist today at Yale, where I have recently taught. We often have stars who come in as visiting professors, architects who decide to teach for a semester and then return to their professional practices. In Italy, I know that this method of engaging faculty is often not easily feasible and certainly marks a significant difference in the characterization of educational environments.
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Being able to observe reality and formulate clear questions at the foundation of each design laboratory’s research is a fundamental and essential practice, even though I believe there is still much to be done and worked on. Clearly, the urgency of environmental issues and climate change represents the main concern guiding the choices and themes of studios in the schools I’m most closely involved with, and I think these will definitely remain central for a long time. For example, I happened to see an interesting research project developed on the topic of timber high-rise construction – an interesting, legitimate, and above all urgent project to pursue today in a school of architecture. The architecture of the home, affordable housing, and ways of rethinking future living are always central topics, but depending on the needs and specificities of individual cities and different communities, they present themselves as complex and varied issues. After COVID, a very strong discourse has emerged around the possible transformation of office buildings into housing: working on the conversion of existing architecture is a highly relevant issue for our country. These new problems are emerging with increasing force, and it is important that they are at the center of pedagogical experiences in schools of architecture. If through the work, study, and in-depth exploration of teachers and students, publications and volumes are eventually produced, the experience gains significant value because sharing the results with a broader audience is part of the value and strength of a school of architecture. Therefore, I believe that being able to define conceptual, cultural, and operational aspects within the organization of different laboratories’ programs is a necessary, difficult, and at the same time fundamental task for the success of each lab, for the future of schools, and for generating broad and substantial discussions useful to the relevant cultural and scientific communities.
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Many reflections come to mind – one in particular concerns the theme of collaboration and teamwork within individual laboratories, as opposed to the traditional model in which a talented student works on a project under the guidance of a charismatic teacher or authoritative figure. Only at the end of my studies, after completing my architectural education, did I realize that these masters can certainly be a great source of inspiration at certain moments, but they do not represent the only path to follow. I think balance is necessary, integrating learning experiences in laboratories that are less focused on individual performance and more oriented toward collective work – especially with a view to the collaborative working methods typical of the professional world awaiting students. Even if the school environment maintains a certain utopian aura or sense of otherness compared to the broader and more complex reality, I believe that an architecture student benefits from a multiplicity of experiences throughout their academic journey. Studying under a big name from the academic or professional star system can be useful for one semester, but it should be counterbalanced with different kinds of experiences in the other semesters. I think there is great value in experiencing different environments, choosing specific labs on a case-by-case basis and alternating between experiences guided by more radical ideologies and others more grounded in collaborative and process-oriented realities.
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L’ambiente laboratorio
Nelle scuole americane, in quelle che potremmo definire di élite, c’è sempre stato, o c’è stato per molto tempo, un approccio molto teso verso la sperimentazione, ovvero cercare di superare un po’ i confini per esplorare strade e maniere di pensare l’architettura che presumibilmente non siano immediatamente spendibili sul piano dell’operatività professionale una volta che gli studenti si ritrovano poi immersi nel mondo del lavoro. Sperimentare possibilità anche prive di contatti pragmatici con le condizioni reali ma che diano però agli studenti la capacità di aprire lo sguardo e analizzare criticamente la realtà alla ricerca di risposte ad esigenze e problematiche urgenti sempre maggiormente emergenti dalla società e dalle differenti comunità. Ancora una volta, sospetto che in Italia molti progetti sviluppati nell’ambito dei laboratori di progettazione tendano a essere più connessi con specifici contesti, o meglio più vincolati intorno a principi di realtà, di quello che invece accade negli equivalenti americani. Ovviamente tutto dipende principalmente dalla docenza. Osservando quei dog and pony show a cui mi riferivo prima, sicuramente emerge un certo grado di eclettismo e di diversità di approcci e metodi pedagogici. Tutto dipende dall’individualità del docente che dirige i laboratori, dai suoi interessi di ricerca e anche dalla sua personalità. Ho potuto osservare da vicino la diversità di approcci che ci sono oggi a Yale, dove ho insegnato di recente. Spesso abbiamo delle star che vengono come docenti invitati, architetti che decidono di insegnare per un semestre per poi ritornare alle loro pratiche professionali. In Italia so che questa modalità di ingaggio dei docenti non è spesso facilmente praticabile e sicuramente delinea una grande differenza nella caratterizzazione degli ambienti didattici.
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Riuscire a osservare la realtà e costruire delle domande chiare alla base delle ricerche dei singoli laboratori di progettazione è una pratica fondamentale ed essenziale, anche se credo ci sia ancora molto da fare e su cui lavorare. Ovviamente, l’urgenza delle questioni ambientali e dei cambiamenti climatici rappresentano le principali preoccupazioni che guidano le scelte e i temi degli studio delle scuole che frequento più da vicino, e penso che sicuramente continueranno a essere centrali ancora a lungo. Ad esempio, mi è capitato di vedere un interessante lavoro di ricerca sviluppato sul tema della costruzione in legno di grattacieli, progetto interessante, legittimo e soprattutto urgente da perseguire oggi in una scuola di architettura. L’architettura della casa, l’edilizia residenziale a prezzi accessibili e le maniere di pensare l’abitare del futuro sono sempre temi centrali, ma a seconda delle esigenze e delle specificità delle singole città e delle diverse comunità, si presentano come temi complessi e differenti. Dopo il Covid un discorso molto forte è quello legato a possibili trasformazioni degli edifici per uffici in abitazioni: il lavoro sulla conversione dell’architettura esistente è un tema molto centrale per il nostro paese. Questi nuovi problemi emergono sempre con più forza ed è importante che siano al centro delle esperienze pedagogiche nelle scuole di architettura. Se attraverso il lavoro, lo studio e l’approfondimento di docenti e studenti si riesce poi a costruire pubblicazioni e volumi, l’esperienza acquista un valore molto rilevante poiché la condivisione dei risultati con un pubblico più vasto è parte del valore e della forza di una scuola di architettura. Pertanto, credo che riuscire a definire aspetti concettuali, culturali e operativi nell’ambito dell’organizzazione dei programmi dei differenti laboratori sia un lavoro necessario, difficile e allo stesso tempo fondamentale per la buona riuscita dei singoli laboratori, per il futuro delle scuole e per generare ampie e sostanziate discussioni utili per le comunità culturali e scientifiche di riferimento.
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Mi vengono in mente molte riflessioni, una in particolare riguarda il tema della collaborazione e del lavoro di squadra all’interno dei singoli laboratori, contrapposto al modello tradizionale in cui uno studente di talento lavora a un progetto sotto la guida di un maestro carismatico o di una figura autorevole. Solo al termine del mio percorso di studi e quindi dopo aver completato la mia formazione in architettura, mi sono resa conto che questi maestri possono certamente essere fonte di grande ispirazione in alcuni momenti, ma non rappresentano l’unica via da seguire. Penso che sia necessario un equilibrio, integrando esperienze di studio in laboratori che siano meno concentrati sulla performance individuale e più orientate al lavoro collettivo, soprattutto in vista delle modalità di lavoro collaborative tipiche del mondo del lavoro professionale che attende gli studenti. Anche se l’ambiente scolastico mantiene una certa aura utopica o di alterità rispetto alla realtà, più ampia e complessa, credo che uno studente di architettura tragga vantaggio da una molteplicità di esperienze durante il suo percorso formativo. Seguire uno studio diretto da un grande nome dello star system accademico o professionale può essere utile per un semestre, ma dovrebbe essere controbilanciato da esperienze differenti negli altri semestri. Penso che ci sia molto valore nel vivere differenti ambienti, scegliendo caso per caso specifici laboratori alternando esperienze guidate da ideologie più radicali e da altri invece più calate in realtà collaborative e processuali.
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Joan Ockman – Vincent Scully Visiting Professor in Architectural History; Adjunct Professor, University of Pennsylvania
Copertina del volume Architecture School. Three centuries of educating architects in North America, a cura di Joan Ockman. -
Notes for a systematics of the educational project
I have always been deeply interested in discussing pedagogy; I believe it’s crucial to reflect on this topic. Not only from a theoretical standpoint but especially starting from how I personally have addressed practical problems that have arisen in this field across the various universities where I have taught and in relation to the role I held at the time. In this sense, one of the most significant experiences for me remains the one at the Polytechnic University of Turin when, in 2002, I was invited by Carlo Olmo, then Dean of the First Faculty of Architecture, with the mandate, so to speak, to “invent” a model for the new specialized degrees. This allowed me to explore the subject from very different perspectives.
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Another issue I strongly advocated for was precisely related to the calendar and workspaces. On one hand, thanks to the collaboration with Olmo, I secured that some rooms, which had just been vacated near the Valentino Castle, were reserved exclusively for laboratories, so students could leave everything there, including models. On the other hand, I introduced a calendar divided into two phases: the first of 10 weeks characterized by the alternation between disciplinary courses and laboratories, with laboratories occupying two full days, and the second of 4 weeks following the charrette model, without monographic courses, allowing students to complete the project by focusing solely on it. This was also because I wanted the last day of the calendar to be the final exam. Therefore, other professors agreed to compress their teaching because, in return, they knew that in the same exam session, the student had completed the project and had the entire vacation to take other exams without the burden of thinking about anything else.
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[The “infrastructural” aspect] is, instead, a fundamental issue. Along with the composition and structure of the teaching staff, it should constitute the fundamental basis for defining the programmed number of admissions. This is the foundation of a school’s true sustainability and, consequently, of an educational model. Also because the general framework in which our educational offer is situated is no longer just national but international, and if we don’t start thinking about this issue, our model is at significant risk in this regard.
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As strange as it may seem in the Italian context, unlike what happens internationally, I believe it would be necessary to introduce a basic preparatory course, the completion of which would be a prerequisite for admission to the actual degree program. A year of initiation, that is, dedicated exclusively to design exercises, drawing, history, and criticism, through which students can acquire the tools to begin studying architecture. Today, in fact, students attending our universities come not only with very different backgrounds in terms of secondary education but also from very diverse cultural or geographical contexts. And to all of them, we must convey that fundamental principle concerning the multidimensional aspect of the architect, which cannot be exhausted in a short time.
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The issue of individual assessments is always a very delicate matter. And it obviously depends on both the type of laboratory and the year of the course. Even in the master’s program, however, I always ensure that students have at least a part of the project developed individually. This is because I believe it is very important to make students responsible and to make them understand that being an architect is a role, also social and political, linked to the discipline. As we know, architecture, along with medicine, is the only protected profession in Europe, precisely because of the responsibility it entails. For this reason, I think it’s very important that students understand from the outset how essential it is to be able, so to speak, to walk on their own. Even with the awareness that, for many of them, this individual experience can be a shock. But also in the belief that it is fundamentally necessary to force them to take the risk of doing a project, accepting its results and inevitable failures.
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The idea […] is to develop initial concepts completely detached from design references, then only later verify the correspondence of this experimentation with a specific typological repertoire. Keeping in mind, however, that the first idea can never be deductive, as the primary goal of any teaching should be to encourage students to trust themselves, even at the cost of removing all certainties. This is because they must understand that design is very difficult and that, therefore, doubt is a fundamental part of designing. Thus, from a pedagogical point of view, the lack of a direct design reference to replicate imitatively, and the consequent questioning of the project that derives from this, serve only to help students gain confidence in themselves. Just as the entire process of discussion and, so to speak, deconstruction of the project that takes shape during reviews serves to consolidate their awareness of certain fixed points, of which they become certain critique after critique.
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There is no doubt that one of the fundamental issues in this field concerns the relationship between a certain form of dogmatism, freedom of thought, and, above all, freedom of experimentation. But even though I strongly encourage students to experiment freely, it’s not that kind of laissez-faire that corresponds to a hyper-liberal model. Students must always be made to understand what the priorities are, teaching them what the most important values are, each according to their own approach and idea of architecture. For me, for example, the internal spatiality of a building is very important, rather than its external appearance, while for Snozzi, with whom I worked for many years, it was the relationship with the place, or rather, the type of architectural insertion, that was decisive. But it is precisely the complexity of the architectural project that allows us to establish our priorities, deciding which things are more important than others.
Regarding the multiplication of models, I am very concerned that this coincides with a historical moment marked by the overconsumption of images. Perhaps precisely because I have always been interested in the theme of space that is lived and experienced with the body, and in the tactile dimension of architecture that, in a certain sense, goes beyond the visual. But also in that narrative dimension that allows us to talk about space through the experience of the path, the temporal narrative, and the direct experience that, likewise, goes beyond the principle of images. In any case, I believe that today it is more necessary than ever to always tell students to be extremely careful about the consumption of images, asking them «what do you want to show?». Because personally, I am much more interested in their capacity for imagination than in the image itself, just as I am more interested in the fact that they understand the primordial aspect of space. For this reason, I insist a lot on models instead of images, so that they learn to reason about what I consider to be the fundamental values of architecture.
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On this topic [professionalization], even though I know I represent an increasingly minority position, I must say that I see the crisis of this teaching model as something very negative. Even though, from a certain point of view, it is not entirely unjustified. This is because, in recent years, especially thanks to the international opening of the global university system, a certain type of academic market has been created for this professional figure, also fueled by exhibitions and magazines, which is entirely self-referential. And in which the teaching that professionals offer has nothing to do with their own practice, but with a certain kind of schizophrenic experimentation whose ultimate goal is the creation of a photogenic product, regardless of content.
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[…] I think the relationship between profession and academic training needs to be completely rethought, and, in this sense, precisely the role of schools. In the sense that we must try to understand what a school is for in its critical relationship with the profession and, therefore, what the true objective of training in this field is. A good school of architecture should ideally foster and nurture in students a deep and authentic passion for architecture, but we must also remember that not all graduates will necessarily become professional architects. Because we are still too tied to the idea of imagining students as future studio owners, when in reality we should think that the one we work in is not a school of architects, but of architecture, with all that this entails in terms of professional opportunities. Today, therefore, it is more important than ever to reflect on the role of professionals within the university, as well as on the skills they can bring. But this must be done with an authority capable of questioning the model that now seems to have been established, to once again seek that contamination with reality I mentioned earlier.
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Note per una sistematica del progetto didattico
Mi interessa sempre molto parlare di pedagogia, credo sia molto importante interrogarsi sul tema. Non solo, però, dal punto di vista teorico, ma soprattutto a partire da come io stesso ho affrontato i problemi pratici che mi si sono posti, in questo campo, nelle diverse università in cui ho insegnato e rispetto al ruolo che al momento ricoprivo. In questo senso, tra le più importanti, per me, rimane l’esperienza fatta al Politecnico di Torino, quando, nel 2002, sono stato chiamato da Carlo Olmo, allora Preside della prima Facoltà di Architettura, con il mandato, per così dire, di “inventare” un modello per le nuove lauree specialistiche. Cosa che mi ha permesso di esplorare l’argomento secondo prospettive molto diverse.
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Un’altra questione su cui ho spinto molto, poi, era legata proprio al calendario e agli spazi di lavoro. Da un lato, infatti, grazie alla collaborazione con Olmo, ho ottenuto che una parte di locali che si erano appena liberati vicino al Castello del Valentino fossero riservati esclusivamente per i laboratori, per cui gli studenti potevano lasciare tutto lì, modelli compresi. E dall’altro ho introdotto il calendario diviso in due fasi: la prima di 10 settimane caratterizzata dall’alternanza fra i corsi disciplinari e i laboratori, con i laboratori che occupavano due giorni pieni, e la seconda di 4 settimane secondo il modello a charrette, senza corsi monografici, per cui lo studente finiva il progetto, facendo solo quello. Questo anche perché volevo che l’ultimo giorno del calendario fosse l’esame finale. Per cui anche gli altri docenti erano d’accordo sul fatto di comprimere il loro insegnamento, perché in cambio sapevano che nella stessa sessione d’esame lo studente aveva finito il progetto e aveva tutte le vacanze per fare gli altri esami senza avere l’incombenza di pensare ad altro.
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[Quello “infrastrutturale”] È un tema fondamentale, invece. Che assieme alla composizione e alla struttura del corpo docente dovrebbe costituire la base fondamentale di definizione del numero programmato di ingressi. È su questo che si fonda la vera sostenibilità di una scuola e, quindi, di un modello didattico. Anche perché il quadro generale in cui si situa la nostra offerta formativa, ormai, non è più solo di scala nazionale, ma internazionale, e se non si inizia a ragionare sul tema, il nostro modello rischia molto in questo senso.
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Per quanto possa sembrare strano per il contesto italiano, al contrario di quanto invece accade in ambito internazionale, ritengo sarebbe necessario introdurre un corso preparatorio di base, il cui superamento rappresenti un vincolo per l’ammissione alla laurea vera e propria. Un anno di iniziazione, cioè, dedicato esclusivamente a esercizi progettuali, disegno, storia e critica, attraverso cui gli studenti possono acquisire gli strumenti per cominciare a studiare architettura. Oggi, infatti, arrivano a frequentare le nostre università studenti non solo con formazioni molto diverse in termini di istruzione secondaria, ma provenienti anche da contesti culturali o geografici molto differenti fra loro. E a tutti loro dobbiamo trasmettere quel principio fondamentale che riguarda l’aspetto multidimensionale dell’architetto, che non può essere esaurito in breve tempo.
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Quella sulle valutazioni individuali è sempre una questione molto delicata. E dipende, ovviamente, sia dal tipo di laboratorio sia dall’anno di corso. Anche nella magistrale, però, faccio sempre in modo che gli studenti possano avere almeno una parte del progetto sviluppata individualmente. Questo perché credo sia molto importante responsabilizzare gli studenti, e far capire loro che essere architetti è un ruolo, anche sociale e politico, legato a quello della disciplina. Come sappiamo, infatti, l’architettura insieme alla medicina è l’unica professione protetta in Europa, proprio per la responsabilità che comporta. Per questa ragione, penso che sia molto importante che gli studenti capiscano sin da subito quanto sia essenziale essere capaci, per così dire, di camminare da soli. Pur nella consapevolezza che, per molti di loro, questa esperienza individuale può essere uno shock. Ma anche in quella che è comunque fondamentale obbligarli a prendersi il rischio di fare un progetto, accettandone i risultati e gli inevitabili fallimenti.
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Il discorso […] è un po’ quello di elaborare delle prime idee totalmente svincolate dai riferimenti progettuali, per poi andare a verificare solo in seguito la rispondenza di questa sperimentazione con un determinato repertorio tipologico. Tenendo conto, però, che la prima idea non può mai essere deduttiva, in quanto il primo obiettivo di ogni insegnamento deve essere quello di spingere gli studenti ad avere fiducia in sé stessi, anche a costo di togliere loro ogni sicurezza. Questo perché devono capire che la progettazione è molto difficile e che, quindi, il dubbio è parte fondamentale del progettare. Per cui, dal punto di vista pedagogico, la mancanza di un riferimento progettuale diretto, da replicare per via imitativa, e la conseguente messa in crisi del progetto che da questa deriva servono soltanto a far prendere agli studenti fiducia in sé stessi. Così come tutto il processo di discussione e, per così dire, di decostruzione del progetto che prende forma durante le revisioni serve a consolidare la loro consapevolezza su alcuni punti fermi, di cui diventano certi critica dopo critica.
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Non c’è dubbio che uno dei temi di fondo, in questo campo, sia quello che riguarda il rapporto tra una certa forma di dogmatismo, la libertà di pensiero e, soprattutto, la libertà di sperimentazione. Ma anche se io spingo molto gli studenti a sperimentare in piena libertà, non si tratta di quel tipo di laissez-faire che risponde a un modello iper-liberale. Bisogna sempre far capire agli studenti quali sono le priorità, insegnando quali sono i valori più importanti, ognuno secondo la propria impostazione e la propria idea di architettura. Per me, per esempio, è molto importante la spazialità interna di un edificio, piuttosto che il suo aspetto esteriore, mentre per Snozzi, con cui ho lavorato tanti anni, era il rapporto con il luogo o, meglio, il tipo di inserimento architettonico, a essere determinante. Ma è proprio la complessità del progetto architettonico che ci permette di stabilire le nostre priorità, decidendo quali cose siano più importanti di altre.
Sul tema della moltiplicazione dei modelli, poi, mi preoccupa molto che questo coincida con un momento storico segnato dall’iperconsumo dell’immagine. Forse proprio perché sono sempre stato interessato al tema dello spazio che viene vissuto ed esperito con il corpo, e alla dimensione tattile dell’architettura che, in certo senso, va oltre il visuale. Ma anche a quella narrativa che consente di parlare dello spazio attraverso l’esperienza del percorso, il racconto temporale e l’esperienza diretta che, ugualmente, va oltre il principio delle immagini. In ogni caso, credo che oggi sia più che mai necessario dire sempre agli studenti di stare estremamente attenti al consumo delle immagini, chiedendo loro «cosa volete far vedere?». Perché personalmente a me interessa molto di più la loro capacità di immaginazione che l’immagine in sé, esattamente come mi interessa più il fatto che comprendano l’aspetto primordiale dello spazio. Per questo insisto molto sui plastici, invece che sulle immagini, perché imparino a ragionare su quelli ritengo siano i valori fondamentali dell’architettura.
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Su questo tema [la professionalizzazione], anche se so di rappresentare una posizione ormai minoritaria, devo dire che vedo la crisi di questo modello di insegnamento come qualcosa di molto negativo. Anche se, da un certo punto di vista, non del tutto ingiustificata. Questo perché, negli ultimi anni, soprattutto grazie all’apertura internazionale del sistema universitario globale, si è creato per questa figura professionale un certo tipo di mercato accademico, alimentato anche da mostre e riviste, che è del tutto autoreferenziale. E in cui l’insegnamento che i professionisti offrono non ha niente a che fare con la propria pratica, ma con una sperimentazione, in un certo senso, schizofrenica il cui ultimo fine è la realizzazione di un prodotto fotogenico, al di là del contenuto.
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[…] penso vada ripensato totalmente il rapporto tra professione e formazione accademica, e, in questo senso, proprio il ruolo delle scuole. Nel senso che dobbiamo provare a capire a cosa serva una scuola nel suo rapporto critico con la professione e, quindi, quale sia il vero obiettivo della formazione in questo campo. Una buona scuola di architettura dovrebbe idealmente far nascere e crescere negli studenti una profonda e autentica passione per l’architettura, ma dobbiamo anche ricordare che non tutti i laureati diventeranno necessariamente architetti di professione. Perché siamo ancora troppo legati all’idea di immaginare gli studenti come futuri titolari di uno studio, quando in realtà dovremmo pensare che quella in cui lavoriamo non è una scuola di architetti, ma di architettura, con tutto ciò che in termini di opportunità professionali questo comporta. Oggi, quindi, è più importante che mai ragionare sul ruolo dei professionisti all’interno dell’università, oltre che delle competenze che possono portare. Ma bisogna farlo con un’autorevolezza che sia capace di mettere in discussione il modello che sembra essersi ormai affermato, per cercare nuovamente quella contaminazione con la realtà a cui accennavo prima.
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Pierre-Alain Croset – Full Professor, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano.
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The Italian difference in architectural education
Teaching experience in other faculties, in other places, in other countries has indeed been essential for me to understand whether and what the differences are compared to our system. But before addressing this issue, I want to touch on a specifically Italian matter that worries me greatly and concerns the present; a negative difference compared to other countries, though hopefully only temporary. It can be defined as a nominal crisis of schools of architecture that masks a structural crisis. This crisis is externally linked to the names of the fields in which architects are trained. While everywhere else in the world these institutions continue to be referred to as “architecture,” maintaining a coincidence between name and teaching, this is hardly the case anymore in Italy, where, due to reforms and reshuffling, architectural education in most universities takes place within heterogeneously composed departments that have often taken on different and frequently generic names. The near disappearance of the name follows a deeper state of difficulty concerning the role of schools of architecture and the professionals they train. Since studios are, in most cases, the basic structure of teaching, they also serve as a litmus test for the crisis and a useful observatory for identifying its symptoms and causes. One clear issue concerns their leadership. While around the world studios, ateliers, or design courses are led by architects with design experience, this is increasingly rare in our current university system, also due to the declining presence of the architect-designer figure (not in title, but in actual skill and experience) caused by evaluation and hiring systems that tend to favor mostly theoretical forms of preparation. Thus, whereas the studio was, up to a certain point, an experience that in Italy as well could bring academia and reality closer together through the coordination of multiple disciplines around the centrality of the project, this is now gradually being lost along with the inability to assign a clear direction to its leadership. More generally, what is unraveling is the pact among disciplines that, in different ways, have until now defined the recognized field of architectural education within what were, until recently, faculties. The issue of the name is therefore not merely formal, but carries the symptoms of a disintegration process affecting a specific field of education developed over years of experimentation.
In itself, this could be a sign of the need for an update, the urgency to redefine – even within academia – what the term “architecture” means and encompasses in relation to the new questions posed by contemporary society. But at present, what seems to prevail instead are aspects of stagnation, division, deterioration, and confusion.
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One of the consequences of this critical situation is thus a condition of conservative inertia that inevitably leads to greater isolation and self-celebration of the individual disciplines that make up the Architecture universe, many of which now claim ownership of the design process. An innovative process regarding these aspects should instead aim to create a new kind of designer, equipped with different and updated skills that result from a rethinking of current disciplinary areas and their boundaries, as well as the needs posed by the country.
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In summary, studios – as well as the university experience in general – can play a guiding role, fundamental but not expected to provide definitive answers for a profession that has greatly evolved over time. They can offer foundational training by immersing the student in a world of new things, instill lasting principles, cultivate responsible behavior, introduce virtuous examples. Everything else will come later, outside the university, and will have different characteristics depending on each person’s development, experiences, and talent. Universities and studios also play a crucial role in sparking a passion for architecture in students, without which this profession cannot be practiced, and that is why the environment created within them is so important.
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These two aspects – the consideration of context and the relationship with history – could already be considered a “tendentious” component of Italian architectural education, in a less ideological and more open sense than in the past, but still sufficient to make a school, or perhaps all schools in our country, recognizable. In fact, the “Italian gaze” is a common element in all schools of architecture in Italy. This alone could serve as a basis for work in relation to contemporary times, which urgently need to be understood and studied in their material and formal aspects. Personally, I would be satisfied to know that Italian universities uphold worldwide the practice of scientifically understanding places and taking care of them, confirming themselves as a kind of outpost or permanent observatory in the country that produced the most important urban experiences.
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A school of architecture should, therefore, even today, have its own character within a broader landscape that highlights each one’s specificities. But the reality is that what currently tends to prevail is a kind of lowest-common-denominator standardization, a desire for dissolution, and a subordination to more technical academic fields. Studios, which have been the main field for educational experimentation in recent decades, risk becoming the first victims of this destructive trend and being eliminated precisely in the institutions that had invented them as the backbone of architectural education.
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La differenza italiana nella didattica
L’esperienza di insegnamento in altre facoltà, in altri luoghi, in altre nazioni è stata in effetti per me fondamentale per rendermi conto se ci siano e quali siano le differenze rispetto al nostro sistema. Ma prima di affrontare questo tema voglio accennare a una questione italiana specifica che mi preoccupa molto e riguarda l’attualità; una differenza non positiva rispetto ad altre nazioni, anche se auspicabilmente transitoria. La si può definire come una crisi nominale delle scuole di architettura che copre una crisi strutturale. La crisi ha a che vedere, nei suoi aspetti esterni, con il nome degli ambiti in cui si formano gli architetti. Mentre in qualunque luogo al mondo le istituzioni di questo tipo continuano a venire designate con il termine “architettura”, mantenendo una coincidenza tra nome e insegnamento, ciò non avviene quasi più in Italia dove, a causa di riforme e rimescolamenti, l’insegnamento dell’architettura, nella maggior parte delle università, si svolge dentro a dipartimenti dalla composizione eterogenea che hanno assunto spesso nomi diversi tra loro e spesso generici. La quasi scomparsa del nome segue a uno stato di difficoltà più profondo che riguarda il ruolo delle scuole di architettura e delle figure che esse formano. Essendo i laboratori nella maggior parte delle situazioni la struttura base dell’insegnamento, essi costituiscono anche una cartina al tornasole della crisi e un utile osservatorio per individuarne sintomi e ragioni. Un primo problema riguarda indubbiamente la loro conduzione. Mentre in tutto il mondo i laboratori, gli atelier o i corsi di progettazione sono diretti da architetti provvisti di esperienza progettuale, ciò accade più raramente nel nostro attuale sistema universitario anche per il ridursi della presenza nelle università della figura dell’architetto progettista (non per denominazione accademica ma per effettiva capacità ed esperienza) a causa di sistemi di valutazione e selezione dei docenti che tendono a favorire un genere di preparazione per lo più di ordine teorico. Così, se fino a un certo punto il laboratorio è stato anche in Italia un’esperienza in grado di avvicinare accademia e realtà tramite il coordinamento di più discipline attorno alla centralità del progetto, ciò progressivamente sta venendo meno di pari passo con l’incapacità di attribuire una direzione chiara alla loro conduzione. Ma più in generale ciò che sta sfaldandosi è il patto tra discipline che, a titolo diverso, hanno circoscritto sino a oggi il campo riconosciuto dell’insegnamento dell’architettura in quelle che fino a ieri erano le facoltà. La questione del nome dunque non è solo formale ma porta con sé i sintomi di un processo di sfaldamento di un campo di insegnamento specifico cresciuto in anni di sperimentazioni.
In sé ciò potrebbe costituire il segnale della necessità di un aggiornamento, dell’urgenza di ridefinire, anche in ambito universitario, cosa significhi e comprenda il termine “architettura” in relazione alle nuove questioni che la contemporaneità pone. Ma allo stato attuale mi sembra tendano a prevalere piuttosto aspetti di staticità, divisione, logoramento e confusione.
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Una delle conseguenze di questa criticità è dunque una condizione di immobilismo conservativo che inevitabilmente determina un aumento dell’isolamento e dell’auto-celebrazione delle singole discipline che compongono l’universo Architettura, molte delle quali si auto-attribuiscono oggi la proprietà dell’azione progettuale. Un processo innovativo per quanto riguarda questi aspetti dovrebbe avere come obiettivo, al contrario di come avviene, la formazione di una nuova figura di progettista, fornito di competenze diverse e aggiornate che siano il frutto di un ripensamento degli ambiti disciplinari attuali e dei loro confini e delle necessità che il paese pone.
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Riassumendo, i laboratori, così come l’esperienza universitaria in generale, possono svolgere una funzione di indirizzo, fondamentale ma che certo non può pretendere di fornire risposte definitive a un mestiere, che si è molto evoluto nel corso del tempo. Possono fornire una formazione di base immergendo lo studente in un mondo di cose per lui nuove, attribuirgli principi duraturi, abituarlo a comportamenti responsabili, fargli conoscere esempi virtuosi, tutto il resto avverrà in seguito, all’esterno, e avrà caratteristiche diverse a seconda della maturazione, delle esperienze e del talento di ognuno. Le università e i laboratori svolgono poi un ruolo fondamentale nel far nascere negli studenti la passione per l’architettura senza la quale questo mestiere non può essere svolto ed è per questo che l’ambiente che si crea al loro interno è fondamentale.
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Questi due aspetti: la considerazione del contesto e il rapporto con la storia potrebbero già di per sé essere considerati una componente “tendenziosa” dell’insegnamento italiano dell’architettura, in senso meno ideologico e più aperto che in passato ma sufficiente per dare riconoscibilità a una scuola o forse anche a tutte le scuole del nostro paese. In effetti lo “sguardo italiano” costituisce un elemento comune a tutte le scuole di architettura in Italia. Questo basterebbe per farne una base di lavoro in relazione alla contemporaneità che ha un estremo bisogno di essere compresa e studiata nei suoi aspetti materiali e formali. Io, mi accontenterei di sapere che le università italiane tengono alto nel mondo la pratica del conoscere scientificamente i luoghi, del prendersene cura, confermandosi come una sorta di presidio o di osservatorio permanente nel paese che ha prodotto le esperienze urbane di maggior importanza.
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Una scuola d’architettura dovrebbe, dunque, avere anche oggi un suo carattere dentro un panorama generale che evidenzi le specificità di ognuna, ma la realtà è che in questo momento tende invece a prevalere una omologazione al ribasso, una volontà di dissoluzione e una sudditanza rispetto ad ambiti accademici più tecnici. I laboratori che sono stati il campo principale della sperimentazione didattica di questi ultimi decenni rischiano di essere le prime vittime di questa tendenza distruttiva e di venire soppressi proprio nelle sedi che li aveva inventati come asse portante dell’insegnamento dell’architettura.
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Alberto Ferlenga – Full Professor, Iuav Università di Venezia.
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The pedagogy of the complete gesture
The philosophy of the gesture originates within American pragmatism, whose essential characteristic is that it is an anti-dichotomous philosophy, standing against the distinctions between description/norm, body/spirit, mind/brain, theory/practice, and so on – distinctions rooted in Cartesian and Kantian culture. Of course, we are talking about a certain interpretation of Descartes and a certain interpretation of Kant, but it is a fact that these dichotomies are among the effects of their philosophical frameworks.
Pragmatism is the exact opposite. It rediscovers both the bodily and experimental, experiential dimension, as well as the metaphysical one – although in many different, sometimes naturalized, forms. This broad horizon of pragmatism is perhaps more interesting now than at its origin, especially since the era of analytic philosophy has come to an end. Perhaps now we can return to doing mathematics, science, and – hopefully – architecture, with truly innovative perspectives.
A few words on the philosophy of the gesture, which grows out of pragmatism. In studying Peirce – his view of the “mathematical continuum” and especially his logic of “existential graphs,” a logic in which one reasons by drawing, and in studying the various semiotic elements of these drawings (which are technical drawings governed by rules) – I had to rethink the analytic/synthetic distinction, accepting that there are synthetic forms of reasoning that we carry out through action. This is the gesture: an action with a beginning and an end that carries meaning. Here, “carries” is not to be understood in its old, external sense, but rather might also be translated as “develops” a meaning through the act of doing. In this type of reasoning, I believe there lies the connection to architecture.
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What happened in education? A tragic separation of thinking from doing. This distinction – particularly strong in Italy due to Giovanni Gentile and idealism – is embedded in the very concept that separates and divides humanistic and scientific studies. It is a false distinction for anyone seriously engaged in either a humanistic or scientific field. No scientist can do without “paper worlds” as Giovanni Vailati – an early 20th-century mathematician and philosopher – called them, meaning ideas nourished also by literature, conversation, philosophy, society, politics, religion. And no humanist can be unaware of the extremely technical precision involved in writing poetry or theatre.
The disappearance of people from axonometric drawings makes me think, because architecture is precisely the field that, by its nature, contradicts this science/humanities divide – and thus creates a problem.
From an educational standpoint, it is absolutely necessary to recover this unified aspect and invent new forms.
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It was my colleague Enrico Guglielminetti from the University of Turin – who had invited me to write for a journal issue dedicated to the theme of work – who suggested that, since the gesture has a phenomenological and semiotic structure, it could help illuminate, in a negative way (i.e., through the absence of certain phenomena or signs), the old issue of alienated labor in Marx, which manifests today in the frequent dissatisfaction with our work. And yet, work – which has become something of a religion in our era – should be a place for the expression of the human being.
If we begin to think in terms of this phenomenological and semiotic structure – which I bring together under the concept of gesture – we can see how both categories of phenomena and categories of signs reveal that work often lacks decisive aspects of reality. For example, when it lacks corporeality, or what Peirce calls secondness, we must recreate it. It’s no coincidence that in the virtual world we try to recover it through bodily engagement – such as the use of touchscreens.
Likewise, the philosophy of the gesture reveals the seriousness of a lack of innovation or awareness in the workplace. If a worker doesn’t know or see the purpose of their work, labor easily becomes a form of slavery – especially when there is no room for innovation. Semiotically, what is missing in such cases is either iconic value – that of spontaneity – or symbolic value – the capacity to grasp the end purpose.
The idea of the complete gesture is that all types of signs and phenomena together develop a meaning, starting from what one receives.
In this vision, when speaking of labor, it’s natural that the idea of craftsmanship, whether real or digital, should resurface, along with the figure of the master and the workshop. It may seem retrograde, but in reality it’s the future we need to reclaim, after the dualisms of the modern age.
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What I truly appreciate is that the gesture is not, by nature, uniform – it’s never the same twice, because each performance is different. The gesture, thanks to the two dimensions of secondness and thirdness, of iconicity and symbolicity, holds together both the dimension of innovation, spontaneity, freedom – even imaginative freedom – and the dimension of replicability, meaning the fact that an action must also become a habitus. In this sense, I believe, it offers an alternative both to the homogenizing force of globalization – that is, to pure replicability, to making everything the same, to always teaching in the same way.
And yet, the critique of this uniformity must not become naive, turning into forms of spontaneous expressionism where all technique disappears and the principle of replicability is lost.
From a cultural point of view, I believe a free gesture is a form of counterculture – in the sense of being a culture different from the homogenizing one – and at the same time, it may offer an alternative path, something that can be taught without becoming merely the (perhaps fascinating) expression of an individual personality.
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La pedagogia del gesto completo
La filosofia del gesto nasce nell’ambito del pragmatismo americano la cui caratteristica essenziale è di essere una filosofia anti-dicotomica, che si pone contro le distinzioni descrizione/norma, corpo/spirito, mente/cervello, teoria/pratica e così via, che sono il portato della cultura cartesiana e kantiana. Ovviamente, stiamo parlando di una certa lettura di Cartesio e di una certa lettura di Kant, ma è un dato di fatto che queste dicotomie sono uno degli effetti della loro impostazione.
Il pragmatismo è l’esatto opposto. Esso riscopre sia la dimensione corporea e sperimentale, esperienziale, sia quella metafisica, sebbene in tante forme diverse, alle volte naturalizzate. Questo orizzonte ampio del pragmatismo è forse più interessante ora che nel suo momento originario visto che, adesso, finita l’epoca della filosofia analitica, forse possiamo tornare a fare della matematica, della scienza, e spero anche dell’architettura, con orizzonti innovativi.
Due parole sulla filosofia del gesto che nasce dal pragmatismo. Studiando Peirce, la sua visione del “continuo matematico” e soprattutto la sua logica dei “grafi esistenziali”, una logica in cui si ragiona disegnando, studiando i vari elementi di semiotica che questi disegni – che sono dei disegni tecnici, quindi che hanno delle regole – prevedono, ho dovuto rivedere la distinzione sintetico/analitico, accettando che ci siano dei ragionamenti sintetici che compiamo agendo. Questo è il gesto: un’azione con un inizio e una fine che porta un significato. Qui, il “portare” non è come quello antico, estrinseco, ma invece si potrebbe anche tradurre come lo “sviluppare” un significato mentre si fa qualcosa. In questo tipo di ragionamento penso si trovi il legame con l’architettura.
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Che cos’è successo nella didattica? Una tragica separazione del pensare dal fare. La distinzione, più forte in Italia a causa di Giovanni Gentile e dell’idealismo, è quella che alberga nel concetto stesso che distingue e divide studi umanistici e scientifici. È una distinzione finta per chi è seriamente impegnato in uno studio umanistico o scientifico. Non c’è nessuno scienziato che non debba avere dei «mondi di carta», come diceva Giovanni Vailati, un grande matematico e filosofo di inizio secolo, cioè che debba avere idee che si nutrono anche di letteratura, conversazione, filosofia, società, politica, religione. E non c’è nessun umanista che non si renda conto di quanto ci sia di tecnica, precisissima, nello scrivere di poesia o di teatro.
La scomparsa delle persone dai disegni in assonometria mi fa pensare, perché l’architettura è proprio il campo che per natura smentisce questa distinzione scientifico/umanistico e quindi crea un problema.
Dal punto di vista didattico bisogna assolutamente recuperare l’aspetto unitario e inventarsi delle forme nuove.
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Fu il collega Enrico Guglielminetti dell’Università di Torino – che mi aveva chiamato a scrivere in un numero di una rivista dedicato al tema del lavoro – a suggerirmi che, siccome il gesto ha una sua struttura fenomenologica e semiotica, allora può aiutare a capire in via negativa (cioè quando manca un tipo di fenomeni o di segno) l’antica questione del lavoro alienato di Marx, che si traduce nell’essere spesso insoddisfatti del lavoro. Eppure, il lavoro, che è anche un po’ la religione di quest’epoca, dovrebbe essere il luogo di espressione dell’essere umano.
Se si inizia a ragionare nei termini di questa struttura fenomenologica e semiotica che io metto insieme nella definizione di gesto, si può vedere come sia le categorie dei fenomeni sia quelle dei segni ci fanno capire che spesso il lavoro manca di aspetti decisivi della realtà. Per esempio, quando manca di corporeità, di secondness, dobbiamo ricrearla: non è un caso che nel mondo virtuale cerchiamo di recuperarla a un utilizzo del corpo con la pratica dei touchscreen.
Allo stesso modo, la filosofia del gesto fa capire nel lavoro l’aspetto grave della mancanza di innovazione o della mancanza di consapevolezza. Se un lavoratore non sa e non vede il fine della sua opera, il lavoro facilmente diventa schiavitù, come quando uno non ha spazio di innovazione. Semioticamente, manca in questo caso il valore iconico – quello della spontaneità – o quello simbolico – la capacità del fine.
L’idea di gesto completo è che tutti i tipi di segno e di fenomeno insieme sviluppino un significato, a partire da quello che uno riceve.
È ovvio che in questa visione, a proposito del lavoro, emerge l’idea di artigianato, reale o digitale, e ritorna la figura del maestro e della bottega. Sembra retrogrado ma in realtà è il futuro da recuperare dopo i dualismi dell’epoca moderna.
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A me piace molto il fatto che il gesto non è per sua natura uniformante, perché ogni performance è diversa dall’altra. Il gesto, grazie alle due dimensioni di secondness e thirdness, di iconicità e simbolicità, tiene insieme la dimensione dell’innovazione, della spontaneità, della libertà, anche immaginativa, e quella della replicabilità e quindi del fatto che un’azione deve diventare anche un habitus. In questo senso, secondo me, è un’alternativa sia alla globalizzazione uniformante, cioè alla sola replicabilità, al rendere tutto uguale, all’insegnare sempre tutto nello stesso modo.
Dall’altro, però, la denuncia di questa uniformità non deve diventare ingenua, quindi involvere in forme di spontaneismo in cui scompare ogni tecnica e viene a mancare il principio di replicabilità.
Dal punto di vista della vicenda culturale, penso che un gesto libero sia una forma di controcultura, nel senso di una cultura diversa da quella uniformante, e allo stesso tempo che possa fornire una strada diversa, ossia qualcosa che si possa insegnare che non diventi solo l’espressione magari interessantissima di una singola individualità.
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Giovanni Maddalena – Professor of Theoretical Philosophy, University of Molise.
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The design studio as a research program
“Sense of possibility”: without that, the pedagogy of design studios would make no sense, precisely.
With the 1993 reform, courses in architectural composition and design began to be called studios because it was recognized that architectural design is learned by doing; but perhaps it was not stated just as clearly that in design studios, doing is not merely about learning techniques or reproducing an experiment whose result is already known in order to further validate its effectiveness. In design studios, as in only some scientific laboratories, doing means starting from a specific problem and trying to solve it by identifying one or more solutions – in the manner of what is done when carrying out a real project.
In the expression “in the manner of what is done when carrying out a real project” lies the entire variability of the educational project: in studios, a project is done to learn how to design, and those who teach in studios know that the gap between an educational project and a real project always exists—but it can vary greatly. In the essay I co-wrote with Emanuele Carreri for the Atlas of Design, in which we addressed the relationship between studios and texts, I tackled this issue by reflecting on the first of four phases we proposed to divide the educational process: prescription–transcription–inscription–description.
The construction of the prescription in the studio is the responsibility of the instructor: «among the definitions of the word “prescription”, there is one that is especially useful to clarify the value of the “program” within the studio: “a rule dictated by the competent authority”. Outside the academic setting, the architectural project is subject to a (tending to be increasingly extensive) series of prescriptions (with different levels of binding force: from laws to best practices); within the studio, the “competent authority” is generally the instructor. It is up to them to define which “problems” the project should solve and how far from reality these “problems” should be positioned […] in any case, it will be a “translation”, and […] almost always, this translation will take the form of a reduction. The difference between the various “programs” lies entirely in the characteristics of this reduction, which is always a cultural reduction, meaning one that is tied to specific (even if not always conscious and explicit) stances on the major questions that pedagogy must confront».
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But unlike in the real world, in the studio the student is required to have a guide in their investigation of the future: in structuring the hypothesis, and in the experimentation process toward the final goal, the work of instructors and students is continuously intertwined. And in this intertwining, instructors are called to insert their disciplinary knowledge, which on one hand is transmitted as information, and on the other offered as expert support for action: and as it is understood, it can be used in their own way by each student to define and experiment with their own solution to the problem.
This is a very particular educational action: and this is why, over the years, it has been so difficult to categorize design studios within the frameworks that identify the qualities of teaching; to quantify the student/teacher ratio; to measure the spaces needed to host them; to plan their duration; to identify and make explicit the minimum required content; and to define the logic of result evaluation. In the first ten years of their existence, it became clear – after the fact – that the difficulty in identifying a statute for design studios was also linked to the strong resistance, on the part of many instructors, to recognizing one. For various reasons: the coexistence of an authoritarian-authoritative academic logic (“do as I do”) and a democratic-tutorial logic (“do as you see fit”); opposition to the introduction of hierarchically superior minimum content; indifference toward respecting the studio’s timeline and formats; an almost exclusive focus on the quantity and quality of final outputs; and a lack of reflection on evaluation logic and methodology. This striking – though often only superficial – lack of statute has made it difficult to grasp and compare the quality of this teaching format with that of more traditional forms of instruction.
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Thus: the statute of design studios should be both produced and recognized by the particular community made up of those who teach in them: difficult, but perhaps not impossible to reach consensus. Maybe with some external help.
The characteristics of a scientific community have been the subject of reflection by those who have built a philosophy around science: and again, I believe it would be useful to learn from them. I am ready to bet that some of the outcomes of their reflections could become starting points for us “designers”; and I am ready to bet that examining how similar we are to “scientists” could help us clarify (to ourselves, to them, and especially to everyone else) how and why we are different. I have written extensively about this elsewhere: here I will pick up only one of the suggestions that could be useful in building a statute for studios (as usual “a posteriori“, starting from each instructor’s experiences).
Thomas S. Kuhn, the author of the famous volume The Structure of Scientific Revolutions, writes that the characteristic of scientific communities is that they share a «disciplinary matrix»: «”disciplinary” because it refers to the possession […] of a particular discipline; “matrix” because it consists of ordered elements of various kinds, each of which requires further specification». According to Kuhn, the matrix consists of four components: symbolic generalizations, metaphysical paradigms, values, and exemplars.
I will summarize, with deliberately schematic logic, the meaning Kuhn gives to these terms: symbolic generalizations are expressions, often formulated in logical terms, used without discussion or dissent by members of a community; metaphysical paradigms are dogmas shared by a community, beliefs in particular models that «among other things provide the group with privileged analogies and metaphors»; values, including what Kuhn considers social utility, “can be shared by people who differ in their application” and also serve to justify and evaluate different theories; exemplars are of two types: «concrete problem solutions that students encounter from the beginning of their scientific education» and «technical solutions to problems presented in the periodical literature» that «also serve to show by example how the work should be done».
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I will now try to define the bet I propose to my clients/researchers. It is indeed a bet, because it is a hypothesis based on uncertain hypothetical premises that are taken as valid (scientists call them beliefs): once we accept them as valid, we can legitimately consider them true, and use them to conduct an experiment.
Let us then assume that the pedagogy of design studios must also be a form of research or, more explicitly, that every design studio is the expression of a research program – whether it is aware of it or not. We have good reasons to support this premise: in studios, as we’ve said, learning occurs through experimentation, and it starts from one (or a series of) hypotheses, initially formulated by the instructor (the studio’s program), and then gradually adopted, integrated, modified (and sometimes even falsified) by the students. These experiments produce results that are often highly differentiated outcomes of that chain of hypotheses, representing the intertwining between the instructor’s general program and the students’ individual programs. We can thus consider both the general and individual programs as research programs. If that is so, we can try to reconstruct, a posteriori, the specific disciplinary matrix each program refers to – and also verify whether and how the outcomes of experimentation may have modified that matrix.
If the educational-disciplinary community already had a shared statute – which in our case would mean that we all already share a disciplinary matrix – we would have no trouble comparing different research programs; but for now, “we designers” have only a declaration, expressed in very general and somewhat confused terms.
To win the bet and build a shared statute for design studios, the educational-disciplinary community of designers could try to reconstruct, starting from the research programs of each studio, the relatively stable and shared core of the common disciplinary matrix, and recognize the program of their own studio as part of that bubbling matter, made up of many different research programs, to whose insidious discoveries the stability of the central core is constantly exposed.
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Each of our studios, in theory and likely in reality, remains unique and in its detail is the expression of an individual research program; this does not mean it cannot share large parts of its underlying disciplinary matrix with other studios, and thus participate in a broader collective research program; and in the end, nothing prevents the set of design studios from being conceived as the expression of a general research program, based on a loosely structured disciplinary matrix, in which some elements of the more stable core emerge, and in which many boxes appear grey: their colors will only be visible by wearing special lenses, capable of revealing, in that greyness, all the subtle differences—in terms of values, symbols, models, and exemplars—that animate the pedagogy and research of designers, and which represent the strongest signal of vitality of a bubbling, open, and plural scientific community.
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Il laboratorio di progettazione come programma di ricerca
“Senso della possibilità”: senza quello la didattica dei laboratori di progettazione non avrebbe senso, appunto.
I corsi di composizione e progettazione architettonica, con la riforma del 1993, si sono chiamati laboratori perché si è riconosciuto che il progetto di architettura si impara facendo; ma forse non si è detto altrettanto chiaramente che nei laboratori di progettazione fare non è soltanto apprendere delle tecniche o imparare a riprodurre un esperimento di cui si conosce già il risultato per comprovarne ulteriormente la validità. Nei laboratori di progettazione, come solo in alcuni dei laboratori scientifici, fare significa muovere da un problema specifico e cercare di risolverlo individuando una o più soluzioni, sul modello di ciò che si fa quando si fa un progetto vero.
Nell’espressione “sul modello di ciò che si fa quando si fa un progetto vero” è contenuta tutta la variabilità del progetto didattico: nei laboratori, si fa un progetto per imparare a progettare e chi insegna nei laboratori sa che la distanza tra un progetto didattico e un progetto vero esiste sempre, ma può essere molto variabile. Nel saggio che ho scritto con Emanuele Carreri per l’Atlante di Progettazione, in cui ci occupavamo del rapporto tra laboratorio e testi, ho affrontato questo problema riflettendo sulla prima delle quattro fasi in cui avevamo provato a suddividere l’iter didattico (prescrizione–trascrizione–iscrizione–descrizione).
La costruzione della prescrizione nel laboratorio spetta al docente: «tra le definizioni della parola “prescrizione” ce n’è una molto utile per precisare il valore del “programma” all’interno del laboratorio: “norma dettata dalla competente autorità”. Fuori dalla scuola il progetto di architettura è soggetto a una (tendenzialmente sempre più consistente) serie di prescrizioni (con diversi livelli di cogenza: dalle leggi alle buone pratiche); nel laboratorio, la “competente autorità” è, in genere, il docente. Sta a lui definire quali “problemi” il progetto dovrà risolvere e a quale distanza dalla realtà questi “problemi” dovranno posizionarsi […] in ogni caso si tratterà di una “traduzione”, e […] quasi sempre questa traduzione avrà la natura di una riduzione. La differenza tra i diversi “programmi” sta tutta nelle caratteristiche di questa riduzione che è sempre una riduzione culturale, cioè una riduzione legata a precise (anche se non sempre consapevoli ed esplicite) prese di posizione sulle grandi questioni con cui la didattica deve confrontarsi».
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Ma, a differenza che nella realtà, nel laboratorio lo studente è obbligato ad avere una guida, nella sua investigazione sul futuro: nella strutturazione dell’ipotesi, e nel percorso di sperimentazione in vista dell’obiettivo finale, il lavoro dei docenti e quello degli studenti si intrecciano continuamente. E in questo intreccio i docenti sono chiamati a inserire il loro sapere disciplinare che da una parte viene trasmesso come conoscenza, dall’altro proposto come supporto esperto all’azione: e man mano che viene compreso, può essere usato a modo suo da ciascuno degli studenti per definire e sperimentare la propria soluzione del problema.
Si tratta di un’azione didattica molto particolare: ed è per questo che negli anni è stato così difficile inquadrare i laboratori di progettazione nelle casistiche che identificano le qualità degli insegnamenti; quantificare il rapporto docenti/studenti; misurare gli spazi che dovevano ospitarli; programmare i tempi del loro svolgimento, identificare ed esplicitare i contenuti minimi, definire le logiche di valutazione dei risultati. Nei primi dieci anni della loro vita, lo si è capito dopo, la difficoltà di identificare uno statuto dei laboratori di progettazione era legata anche alla forte resistenza, di molti che vi insegnavano, a volergliene riconoscere uno. Per diversi motivi: la compresenza di una logica autoritario-autorevole di tipo accademico (“fai come me”) e di una logica democratico-tutoriale (“fai come ti pare”); la contrarietà all’introduzione di contenuti minimi gerarchicamente superiori ad altri; l’indifferenza al rispetto dei tempi e delle forme del laboratorio; l’attenzione puntata quasi esclusivamente sulla quantità e qualità dei prodotti finali; la mancanza di una riflessione sulle logiche e sulle modalità di valutazione. Questa appariscente, anche se spesso solo apparente, mancanza di statuto ha reso difficile capire come cogliere e confrontare la qualità di questa forma didattica con quella dei tipi di insegnamento più tradizionali.
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Ecco: lo statuto dei laboratori di progettazione dovrebbe essere al tempo stesso prodotto e riconosciuto dalla particolare comunità composta da coloro che vi insegnano: difficile, ma forse non impossibile metterla d’accordo. Magari usando qualche aiuto esterno.
Le caratteristiche di una comunità scientifica sono state oggetto di riflessione da parte di quelli che sulla scienza hanno costruito una filosofia: e anche questa volta credo che sarebbe utile imparare da loro. Sono pronta a scommettere che alcuni punti di arrivo delle loro riflessioni potrebbero diventare per noi “progettuali” dei punti di partenza; e sono pronta a scommettere che verificare quanto siamo simili agli “scienziati” possa aiutarci a chiarire (a noi, a loro, e soprattutto a tutti gli altri) quanto e perché siamo diversi. Ne ho scritto diffusamente altrove: qui riprenderò solo uno dei suggerimenti che potrebbero essere utili per costruire uno statuto dei laboratori (come al solito “a posteriori”, partendo dalle esperienze di ciascuno dei docenti).
Thomas S. Kuhn, l’autore del famoso volume La struttura delle rivoluzioni scientifiche, scrive che la caratteristica delle comunità scientifiche è quella di condividere una «matrice disciplinaria»: «“disciplinaria” perché si riferisce al possesso […] di una particolare disciplina; “matrice” perché è composta di elementi ordinati di vario genere, ognuno dei quali esige una ulteriore specificazione”». Per Kuhn la matrice è composta di quattro colonne: le generalizzazioni simboliche, i paradigmi metafisici, i valori, e gli esemplari.
Riassumo con logica volutamente schematica il significato che Kuhn attribuisce a questi termini: le generalizzazioni simboliche sono espressioni, spesso formulate in forma logica, usate senza discussione o dissenso dai membri di una comunità; i paradigmi metafisici sono dogmi condivisi da una comunità, credenze in particolari modelli e «fra le altre cose forniscono al gruppo analogie e metafore privilegiate»; i valori, tra cui secondo Kuhn dovrebbe essere compresa l’utilità sociale, «possono essere condivisi da persone che differiscono tra loro nella loro applicazione» e servono anche a giustificare e valutare differenti teorie; gli esemplari sono di due tipi: «concrete soluzioni di problemi che gli studenti incontrano fin dall’inizio della loro educazione scientifica» e «soluzioni tecniche di problemi presentate nella letteratura periodica» che «servono anche a mostrare con l’esempio come va fatto il lavoro».
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Provo allora a definire la scommessa che propongo ai miei committenti/ricercatori. Si tratta proprio di una scommessa, perché è un’ipotesi basata su premesse ipotetiche incerte che vengono date per buone (gli scienziati le chiamano credenze): una volta che le abbiamo date per buone possiamo legittimamente considerarle vere, e usarle per fare un esperimento.
Diamo allora per vero che la didattica dei laboratori di progettazione non possa non essere anche una forma di ricerca o, meglio, in termini ancora più espliciti, che ogni laboratorio di progettazione sia espressione di un programma di ricerca, che ne sia consapevole o no. Abbiamo delle buone ragioni per argomentare questa premessa: nei laboratori, lo abbiamo detto, si impara sperimentando e lo si fa a partire da una (o da una serie di) ipotesi, messe a punto, all’inizio, dal docente (il programma del laboratorio) e poi, man mano, assunte, integrate, modificate (e a volte perfino falsificate) dagli studenti. Queste sperimentazioni producono dei risultati che sono esiti, spesso molto differenziati, di quella catena di ipotesi che rappresenta l’intreccio tra il programma generale del docente e i programmi individuali degli studenti. Possiamo allora considerare l’uno e gli altri come dei programmi di ricerca. Se è così, possiamo provare a ricostruire, a posteriori, la specifica matrice disciplinaria a cui ciascun programma fa riferimento. E verificare anche se e come gli esiti della sperimentazione abbiano eventualmente modificato quella matrice.
Se la comunità didattico-disciplinare avesse già uno statuto condiviso, il che nel nostro caso significherebbe che tutti condividiamo già una matrice disciplinaria, non avremmo difficoltà a confrontare tra loro i diversi programmi di ricerca; ma per ora “noi progettuali” abbiamo solo una declaratoria, espressa in termini molto generali e un po’ confusi.
Per vincere la scommessa, e costruire uno statuto condiviso dei laboratori di progettazione, la comunità didattico-disciplinare dei progettuali potrebbe provare a ricostruire, a partire dai programmi di ricerca di ciascun laboratorio, il nucleo relativamente stabile e condiviso della matrice disciplinaria comune e riconoscere il programma del proprio laboratorio come parte di quella materia ribollente, fatta di tanti programmi di ricerca diversi, alle cui insidiose scoperte la stabilità del nucleo centrale è continuamente esposto.
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Ciascuno dei nostri laboratori, in teoria e probabilmente nella realtà, resta un unicum e nel suo dettaglio è espressione di un programma di ricerca individuale; ciò non toglie che possa condividere larghe parti della matrice disciplinaria su cui è fondato con altri laboratori, e partecipare dunque di un più ampio programma di ricerca collettivo; e in fondo nulla impedisce che l’insieme dei laboratori di progettazione possa essere pensato come espressione di un generale programma di ricerca, fondato su una matrice disciplinaria a maglie larghe, in cui emergono alcuni elementi del nucleo più stabile e in cui molte caselle appaiono grigie: i loro colori potranno essere scorti solo indossando delle lenti speciali, in grado di far emergere, in quel grigio, tutte le sottili differenze, in termini di valori, simboli, modelli ed esemplari, che animano la didattica e la ricerca dei progettuali e che rappresentano il più forte segnale di vitalità di una comunità scientifica ribollente, aperta e plurale.
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Roberta Amirante – Full Professor, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
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Experimental pedagogy and design studio
Rethinking pedagogy at an experimental level means renegotiating a field of themes and practices in order to train architects capable of confronting the challenges of the contemporary world and projecting them into the future. This entails reestablishing a creative balance between the construction sector and architecture as one of the principal inventive practices contributing to the necessary ecological shift on a global scale. Architecture is tasked with playing a critical and creative role in analyzing and representing the complex network of factors that determine the environmental impact of the building industry.
A necessary premise is to briefly clarify the use of the term “experimental”. As I have explained more extensively elsewhere, I define “experimental” on the one hand as a field of practices and technologies with a specific medial value, and on the other, as their transformative effectiveness in expanding the field of meaning, rethinking its attitudes and implicit assumptions. The experimental value of a practice thus lies in its ability to transform a given state of affairs, expanding its field of significance through a specific expressive modality that can reach the status of an environmental model that is both effective and inventive.
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In architectural pedagogy, the urgency to experiment is connected to what Peggy Deamer, in a recent essay in Ardeth, defined as a problem of “efficacy,” stating: «Architectural academy is guilty of producing architects who might be competent, but are not effective in putting their training into socially relevant use». Compared to mere competence, the notion of efficacy questions how design pedagogy can contribute to transforming the society in which architectural practice is situated, also reflecting on the reasons that limit its impact. Among these is the relationship between the regulation of the architect’s professional role – think of the various licensing and accreditation systems across national chambers – and educational pathways. Another crucial topic is the role of the design studio as the central nucleus of knowledge and architectural form production during education. For Deamer, it is necessary to move beyond design centered on formal choices to include the complexity of real-world design: «A broader definition of design has the students consider what acts, if their hypothetical project were built, would be set in motion by their formal choices. This means, at the front end, imagining and designing the procurement process: who builds, with what materials, coming from what location, and by what means. It implies imagining the suppliers, fabricators, and laborers mobilized by the aesthetic choices being made».
This implies questioning the implicit foundations of architectural pedagogy in response to the urgent challenges of climate change and the need for a new pedagogy grounded in environmental and social justice. The efficacy of architectural design in the climate emergency requires an experimental approach that integrates the development of new technologies and materials, rethinking architectural practice as a process of synthesis capable of incorporating extra-disciplinary knowledge. I have clarified elsewhere my position regarding the productive value – understood as inventive and transformative – of the climate emergency, not as a mere limitation on architectural practice but as a transformative interference. This interference prompts us not only to adapt architecture to sustainable construction methods and materials across time and space but also to turn the emergency into a field of transformative practices. There is, therefore, a specific experimental necessity in attempting to develop a new way of doing architecture, producing innovative technologies and materials and extending architecture’s efficacy as a practice and environmental model.
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In the introductory essay to Pedagogical Experiments in Architecture for a Changing Climate, the responsibility of pedagogy in architecture is reaffirmed in reestablishing a critical relationship with the construction sector and reassessing its environmental impact. To achieve this, it is necessary to create a new balance between the role of the generalist architect and research that must be specific and situated. This agenda is already evident in the current debate on architectural pedagogy, in initiatives such as the Urgent Pedagogies platform, and in alternative pedagogical projects like the Anthropocene Architecture School and the Floating University Berlin. In 2020, within the framework of the Fieldstations association and in collaboration with the Department of Architectural Theory at TU Berlin, I launched the project Anthropocene Pedagogies in Architecture to connect experimental teaching practices. These practices share a specific transformative value, expressed in the development of an architectural pedagogy capable of responding to contemporary challenges related to the design of environmentally and socially sustainable spaces. They also experiment with specific teaching methods that significantly extend the media already present in design, creating hybrid practices at the intersection of architecture and other disciplines. A crucial theme, in my view, is the rethinking of the role of the design studio in response to the challenges of our time.
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Design experimentation involves incorporating extra-disciplinary knowledge as well as developing specific expressive modalities, medial practices, documentation methods, and field shifts in the forms that emerge from the design of – and the way we teach – the environments at the intersection of the human and the non-human. Theory, history, and the geography of teaching practices in architecture cannot be separated. Overcoming a reductionist view of abstraction also requires rethinking the methodologies through which abstract and situated knowledge relate to one another. A fundamental question arises regarding the epistemic function of architecture: can it generate knowledge without becoming a practice of mere abstraction – whose reductionism is one of the main critiques of Modernism? In architectural pedagogy, Adrian Forty’s essay on the concept of design – as a complex notion between drawing, planning, and form – highlights how the strong link between architectural education (increasingly entrusted to universities) and a formal approach to design underlies a profound rift between design practice and material practices at the beginning of the 20th century. This split between architecture as a «mental product – which was taught» and architecture as «a practice engaged with the material world» creates a progressive distance between education and practice: «in short – Forty states – the category “design” allowed architecture to be taught, rather than learnt by experience».
This rupture is also addressed by Pier Vittorio Aureli in reference to abstraction as a cornerstone of capitalist society, based on the division between manual and intellectual labor, which in architecture manifests through the central role of form as the privileged method of abstraction. Referring to Vitruvius’ distinction between fabrica and ratiocinatio, Aureli critically investigates the development of geometric representation as the scientific objectification of space.
Considering the positions of Forty and Aureli as two theoretical provocations, the question arises whether architectural design can constitute a space of non-reductionist abstraction – capable of incorporating extra-disciplinary, situated, and specific knowledge, and at the same time becoming an epistemic artifact. This question may find development in the conception of design as a specific field of medial practices – such as experimental diagrammatics – capable of extending architectural meaning and the definition of the architectural artifact.
In my opinion, the role of design can only be rethought pedagogically through specific teaching practices that engage with particular sites, themes, methods, and purposes. Only in this way is it possible to experiment with the design device as a specific transformation of space. Only in this way can architectural mediality become the necessary domain for translating and transforming the complex challenges in which we are immersed.
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Pedagogia sperimentale e laboratorio progettuale
Ripensare la pedagogia a livello sperimentale significa rinegoziare un ambito di tematiche e pratiche per formare architetti capaci di affrontare le sfide del mondo contemporaneo e proiettarle verso il futuro. Questo significa ristabilire un equilibrio creativo tra il settore delle costruzioni e l’architettura come una delle principali pratiche inventive che contribuiranno alla necessaria svolta ecologica su scala globale. L’architettura ha il compito di svolgere un ruolo critico e creativo nell’analisi e rappresentazione della complessa rete di fattori che determinano l’impatto ambientale del settore costruttivo.
La premessa necessaria è che si chiarisca brevemente l’uso del termine “sperimentale”. Come ho già spiegato in maniera più estesa altrove, definisco come “sperimentale” da un lato un campo di pratiche e di tecnologie con una specifica valenza mediale, dall’altro la loro efficacia trasformativa nell’estendere l’ambito di significazione, ripensandone le attitudini e gli assunti impliciti. La valenza sperimentale di una pratica risiede quindi nella capacità di trasformare un dato stato di cose, ampliandone l’ambito di significazione attraverso una specifica modalità espressiva che possa raggiungere lo statuto di un modello ambientale al contempo efficace e inventivo.
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Nell’ambito della pedagogia architettonica l’urgenza di sperimentare si collega a quello che Peggy Deamer in un recente saggio su Ardeth ha definito come un problema di “efficacia” (efficacy) affermando: «architectural academy is guilty of producing architects who might be competent, but are not effective in putting their training into socially relevant use». Rispetto alla mera competenza, la nozione di efficacia mette in questione il modo in cui la pedagogia del progetto sia in grado di contribuire alla trasformazione della società in cui la pratica architettonica è situata, riflettendo anche sulle ragioni che ne limitano l’impatto. Tra questi vi è la relazione tra la regolamentazione della figura professionale dell’architetto – pensiamo ai diversi sistemi di abilitazione e accreditamento degli architetti presso le diverse camere nazionali – e i percorsi di formazione. Un altro tema cruciale è il ruolo del laboratorio di progettazione come il nucleo centrale della produzione di sapere e forme architettoniche durante la formazione. Per Deamer è necessario un superamento del design incentrato sulle scelte formali per includere la complessità della progettazione reale: «a broader definition of design has the students consider what acts, if their hypothetical project were built, would be set in motion by their formal choices. This means, at the front end, imagining and designing the procurement process: who builds, with what materials, coming from what location, and by what means. It implies imagining the suppliers, fabricators, and laborers mobilized by the aesthetic choices being made».
Questo significa rimettere in discussione le disposizioni implicite alla base della pedagogia architettonica a partire dalle urgenti sfide del cambiamento climatico e dalla necessità di una nuova pedagogia improntata alla giustizia ambientale e sociale. L’efficacia del progetto architettonico nell’emergenza climatica necessita di un approccio sperimentale per integrare lo sviluppo di nuove tecnologie e di materiali, ripensando la pratica architettonica come processo di sintesi in grado di incorporare saperi extra-disciplinari. Ho chiarito altrove la mia posizione rispetto al valore produttivo – nel senso di inventivo e trasformativo – dell’emergenza climatica non come una mera limitazione della pratica architettonica bensì un’“interferenza” trasformativa. Quest’ultima ci induce non solo a adattare l’architettura a metodi costruttivi e materiali sostenibili nel tempo e nello spazio, ma a fare di tale emergenza un campo di pratiche trasformative. Vi è quindi una specifica necessità sperimentale nel tentativo di sviluppare un nuovo modo di fare architettura producendo tecnologie e materiali innovativi ed estendendo l’efficacia dell’architettura come pratica e modello ambientale.
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Nel saggio introduttivo a Pedagogical Experiments in Architecture for a Changing Climate viene ribadita la responsabilità della pedagogia in architettura nel ristabilire una relazione critica col settore costruttivo e nel riconsiderare il suo impatto ambientale. Per raggiungere questo obiettivo è necessario creare un nuovo equilibrio tra il ruolo dell’architetto generalista e la ricerca che necessita di essere specifica e situata. Quest’agenda è già visibile nel dibattito sulla pedagogia in architettura, nelle iniziative emerse come la piattaforma Urgent Pedagogies, e in progetti di pedagogia alternativa come l’Anthropocene Architecture School e la Floating University Berlin. Nel 2020 ho avviato nell’ambito dell’associazione Fieldstations e in collaborazione con il Dipartimento di Teoria dell’Architettura della TU di Berlino, il progetto Anthropocene Pedagogies in Architecture per connettere pratiche di insegnamento sperimentali: esse hanno in comune una specifica valenza trasformativa che si esprime nello sviluppo di una pedagogia architettonica in grado di rispondere alle sfide contemporanee legate alla progettazione di spazi sostenibili a livello ambientale e sociale; inoltre esse sperimentano con specifiche modalità di insegnamento che estendono in maniera significativa i media che già fanno parte della progettazione creando pratiche ibride all’intersezione tra architettura e altre discipline. Un tema, a mio avviso, cruciale è il ripensamento del ruolo del laboratorio di progetto in risposta alle sfide della nostra contemporaneità.
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La sperimentazione progettuale coinvolge l’inclusione di saperi extra-disciplinari come anche lo sviluppo di specifiche modalità espressive, pratiche mediali, metodi di documentazione e spostamento di campo delle forme che emergono dalla progettazione – e dal modo in cui la insegniamo – di ambienti all’intersezione tra l’umano e il non-umano. Non è possibile separare la teoria, la storia e la geografia delle pratiche di insegnamento in architettura. Il superamento di una visione riduzionista dell’astrazione implica anche un ripensamento delle metodologie attraverso cui saperi astratti e saperi situati entrano in relazione. Al riguardo si pone una domanda fondamentale rispetto alla funzione epistemica dell’architettura che è in grado di generare sapere senza diventare una pratica di mera astrazione – il cui riduzionismo è una delle principali critiche rivolte al Modernismo. Nell’ambito della pedagogia architettonica il saggio di Adrian Forty sul concetto di design, come nozione complessa tra disegno, progettazione e forma, mette in luce come uno stretto legame tra la formazione dell’architetto – sempre più affidata alle istituzioni universitarie – e l’approccio formale alla progettazione sia alla base di una profonda cesura tra pratica progettuale e pratiche materiali all’inizio del XX secolo. Questa separazione tra l’architettura come «mental product – which was taught» e l’architettura come «practice enganged with the material world» crea una progressiva distanza tra l’educazione e la pratica: «in short – afferma Forty – the category “design” allowed architecture to be taught, rather than learnt by experience».
Questa cesura è considerata anche da Pier Vittorio Aureli in riferimento all’astrazione come uno dei cardini della società capitalista basata sulla divisione tra lavoro manuale e intellettuale che in architettura si manifesta nel ruolo centrale della forma come il metodo privilegiato per astrarre. Al riguardo Aureli, riprendendo la distinzione vitruviana tra fabrica e ratiocinatio, indaga a livello critico lo sviluppo della rappresentazione geometrica come oggettivizzazione scientifica dello spazio.
Considerando la posizione di Forty e Aureli come due provocazioni teoriche, si pone la questione di comprendere se il progetto architettonico possa costituire uno spazio di astrazione non riduzionista, vale a dire sia in grado di incorporare saperi extra-disciplinari, situati e specifici, e allo stesso tempo divenire un artefatto epistemico. Questa domanda potrebbe trovare uno sviluppo nella concezione del progetto come uno specifico campo di pratiche mediali – si pensi alla diagrammatica sperimentale – in grado di estendere la significazione architettonica e la definizione di artefatto architettonico.
Il ruolo della progettazione può essere ripensato nell’ambito pedagogico a mio avviso solo attraverso specifiche pratiche di insegnamento che si misurano su siti, tematiche, metodi progettuali e scopi specifici. Solo in questo modo è possibile sperimentare con il dispositivo del progetto come specifica trasformazione dello spazio. Solo in questo modo è possibile tentare di fare della medialità architettonica quell’ambito di necessaria traduzione e trasformazione delle complesse sfide nelle quali siamo immersi.
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Lidia Gasperoni – Philosopher and architectural theorist, Associate Professor and Co-Director of Design, Bartlett School of Architecture, University College London.
“Verhandlungssache. Bestand in Transformation”, corso d’integrazione di teoria dell’architettura coordinato da Lidia Gasperoni in collaborazione con il laboratorio di progettazione DE/CO coordinato dal Jan Kampshoff con la collaborazione di Marius Busch, Li Lin, Bene Wahlbrink, Dora Joppien, Vera Kellmann, Annika Rüther, Carolina von Hammerstein, foto: Dora Joppien, Jan Kampshoff, Carolina von Hammerstein.
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Come si progetta un laboratorio di progettazione?
Per rispondere a questa domanda bisogna prima capire cosa sia il laboratorio e quale sia la sua specificità rispetto alle altre forme di insegnamento immersive, esperienziali e interattive che sono storicamente consolidate in questo campo. Tra storia e teoria, normativa e pedagogia, il volume prova a dare una definizione ragionata, aperta e multivocale di questo strumento didattico che possa servire alla sua rimodulazione progettuale. Dando prima conto delle sue condizioni di produzione, dal punto di vista procedurale e pedagogico insieme, e ricostruendo poi, attraverso una serie di aperture teoriche, di prospettive culturali e di racconti di sperimentazioni applicate, un quadro metodologico con cui provare a definire parametri, obiettivi e paradigmi di questo tipo di progetto.✕ Close
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